Costa M.ga: Giorgia Viganò racconta 'il suo Brasile' dopo 15 mesi di missione

Era partita per il Brasile il 29 aprile 2019 quando del coronavirus non c’era neanche l’ombra. È tornata il 4 agosto 2020 su un volo quasi deserto. Giorgia Viganò abita a Costa Masnaga e ha 25 anni: lo scorso anno ha deciso di cambiare radicalmente la sua vita passando quindici mesi in missione con l’Operazione Mato Grosso (OMG), per aiutare chi non è stato fortunato quanto lei. Dopo una laurea in Infermieristica conseguita nel novembre 2018, e un’attesa estenuante per un permesso di soggiorno che faticava ad arrivare, è partita verso una delle regioni più povere del mondo: il Mato Grosso. L’abbiamo incontrata, una volta terminato il periodo di quarantena, per conoscere i dettagli della sua esperienza e le motivazioni sottese a una scelta così radicale.



Da dove è nata la tua voglia di partire?
Mi sono accorta della fortuna che ho avuto nella mia vita e di tutte le cose belle che mi sono arrivate senza avere diritto di averle (sostiene timidamente Giorgia, ndr) mi sono accorta, conoscendo l’OMG, di essere nata nella parte del mondo giusta, dove tutti vorrebbero vivere. Quando ho finito l’università avevo bisogno di ringraziare per quello che avevo ricevuto: la missione in America Latina mi ha permesso di dare senso alla fortuna che avevo avuto e dare anche un po' di senso alla mia vita.


Per quanto tempo hai fatto parte dell’Operazione Mato Grosso? È stato il tuo gruppo a infonderti la voglia di partire o ti apparteneva prima di incontrarlo?
Il desiderio c’è sempre stato, da prima che conoscessi l’OMG. Naturalmente il loro supporto costante è stato fondamentale per la sua concretizzazione: l’OMG ha dato più sostanza a questo sogno. Ho fatto gruppo per quattro - cinque anni. Il tempo passato con loro, le testimonianze con cui venivo in contatto, mi hanno dato una motivazione in più e il coraggio di prendere questa decisione.



Di cosa ti sei occupata in Brasile?
Io vivevo nell’internato, una specie di collegio, ma non inteso in accezione negativa. C’erano cinquanta ragazze che vivevano con me e venivano da situazioni familiari disastrate: senza questa struttura sarebbero diventate delle madri in giovane età. Nell’internato facevamo una vita familiare, le ragazze poi andavano a scuola, mentre io trascorrevo la mia giornata con i bambini, un gruppo la mattina e un altro al pomeriggio. Con i bambini oltre a giocare mi occupavo della parte scolastica, li aiutavo a fare i compiti. Oltre alla parte relativa all’oratorio, andavo anche a trovare le famiglie e i vecchietti soli, li aiutavo nelle faccende domestiche o li portavo in ospedale e svolgevo altre commissioni, sempre nel paese. Mentre nel weekend mi rendevo utile in una missione vicina alla nostra. Inizialmente dovevo occuparmi di un ambulatorio lì vicino e svolgere l’attività di infermiera, ma dal momento che le altre urgenze richiedevano tanto tempo ho deciso di non occuparmene: alla fine è stata una mia decisione.



Come era articolata una tua giornata tipo?
La sveglia era fissata per le 5.45, molto presto perché alle 7 le ragazze andavano a scuola. C’era un momento di preghiera poi si faceva colazione. Dopo io accoglievo i bambini alle 7.30: la mattina avevo 15 bambini, mentre nel pomeriggio 10. Essendoci una sola scuola, i bambini ci andavano a turni, quindi la mattina curavo il gruppo che andava a scuola il pomeriggio. Il pranzo era intorno alle 11.30, mentre la cena della sera alle 19. Quando i bambini tornavano a casa per le 17 io passavo del tempo con le ragazze oppure andavo a fare il giro delle case del paese per dare una mano.



Dov’era e com’era organizzato il paese in cui ti trovavi?
Io vivevo a Vila Naboreiro, nella zona rurale, nella regione del Mato Grasso, nel centro ovest del Brasile. Naboreiro era un paese semplice: solo poche settimane fa è arrivato l’asfalto, e tra l’altro solo in una strada, il resto è rimasto sterrato. Le case sono semplici e molto piccole, le famiglie e le persone vivono una vita semplice: hanno gli animali per sopravvivere, solo alcuni possono permettersi di vendere ciò che il loro terreno produce. Anche noi in internato avevamo le mucche, le galline, i campi, vivevamo di ciò che la terra ci dava. Nonostante questo, c’era internet, quindi sono rimasta in contatto con i miei affetti italiani.



È stato difficile abbandonare i tuoi affetti e la tua famiglia?
Sì, difficile nel senso che era la mia prima esperienza lontano da casa. Anche se alla fine c’era davvero poco tempo per pensare a ciò che succedeva dall’altra parte del mondo, ecco forse mi accompagnava solo un leggero velo di nostalgia.



Cosa hai imparato da questa esperienza?
Il portoghese (afferma ridendo, ndr). Ho imparato sicuramente che a volte si è troppo abituati a vivere nel lusso, tanto da non accorgersi di cosa voglia dire avere un padre, una madre, una semplice famiglia, oppure anche solo un bagno in casa e il cibo tutti i giorni.



Stai già pensando di tornare?
Il desiderio c’è. Vorrei vivere un’altra esperienza così, magari più legata alla professione di infermiera. Quella appena terminata non la vedo semplicemente come una parentesi della mia vita, bensì parte integrante del mio progetto.



Come hai vissuto in Brasile l’avvento del Covid-19? Come è stato gestito?
È stato un disastro. È arrivato quando in Italia era già nel picco e da là vedevamo questa cosa come lontana. Infatti, il Brasile non era affatto pronto per affrontare l’epidemia. A Naboreiro non ho mai vissuto una fase di quarantena, il problema è stato gestito con molta superficialità. In una Paese che è già in grande difficoltà sociale ed economica, il coronavirus è stata solo una delle tante cose negative, quindi non è stato preso molto sul serio. Per loro ci sono alcune cose che sono sacrificabili, come i poveri e gli indigeni. Lo stesso vale anche all’ospedale: se avevi i soldi buon per te, se non li avevi non ti riservavano la stessa cura diffusa negli ospedali italiani. In una paese con così tante problematiche, dire che risolvere una cosa è più importante della risoluzione dell’altra è difficile. Accanto al coronavirus, in Brasile c’è un’altra malattia che ha lo stesso tasso di mortalità, il dengue, trasmesso dalle zanzare.



Hai fatto tante amicizie?
Sì, sono rimasta molto legata ai bambini e alle ragazze dell’internato, che al massimo avevano 18 anni, ma anche alle ragazze che erano assistenti della casa, per loro quello era un vero e proprio lavoro. Sono rimasta molto legata ad Alessio e Sonia, i direttori dell’internato e a Vica, che è il direttore della scuola di Naboreiro, costruita proprio dall’OMG, per garantire ai bambini un’istruzione e un ambiente migliori di quelli che avrebbero potuto avere in una scuola non troppo curata brasiliana. Il metodo attuato è quello di Don Bosco, che oltre ai valori religiosi, trasmette i valori di comunione, condivisione e rispetto che altrimenti questi bambini non riceverebbero, venendo da situazioni familiari infelici.



Che progetti hai ora nella tua vita?
Trovarmi un lavoro, come infermiera, ma contemporaneamente continuare ad aiutare economicamente a distanza la missione di Naboreiro.


Cosa porti a casa da questa esperienza? Quali emozioni hai provato?
Ho toccato con mano l’amore gratuito: all’inizio con i bambini non è stato facile, non hanno avuto la tipica educazione che abbiamo avuto noi, quindi quando cercavo di insegnare loro le regole basilari del vivere civile venivo anche presa in giro. Nessuno aveva mai detto loro cosa è bene e cosa è male, come ci si deve comportare in società, arrivo io dall’altra parte del mondo e mi devono ubbidire: per loro era inconcepibile. Ho provato il significato di amore gratuito in questo senso, perché ho dovuto accettarli per quello che erano, senza aspettarmi un grazie o un prego come risposta (dopo numerosi sforzi, però, sono arrivati alcuni risultati, ndr). Sono contenta di averli lasciati un pò cambiati: se prima non si salutavano neanche, alla fine tornavano in oratorio anche quando l’oratorio non c’era e, i più ostinati verso di me e le regole, alla fine si sono rivelati i più riconoscenti.


C’è un episodio in particolare che ti porterai sempre nel cuore?
In realtà ce ne sono diversi. Il primo è quando sono entrata in casa di una signora che viveva in quattro pezzi di compensato, non aveva niente se noi non le portavamo il cibo. Mi ha offerto il caffè, nonostante quel caffè avrebbe dovuto magari durarle per tre settimane. Loro ti danno quello che hanno, è un modo loro per ringraziarti, nonostante non siano nella situazione più felice del mondo. Un secondo episodio è la costruzione della cappella per una comunità indigena. Lì ho vissuto proprio con il nulla: ho fatto il bagno nel fiume e qualsiasi cosa mi vedevano addosso, mi chiedevano se potessi regalargliela. L’ultimo episodio che mi porterò nel cuore è la cura che le ragazze riponevano nei miei confronti: ero io che dovevo prendermi cura di loro e invece tante volte avevo la sensazione del contrario.

In chiusura della nostra chiacchierata, Giorgia ci ha raccontato anche della costruzione di un asilo e di una scuola nella città di Barra do Garças a cui ha partecipato, conclusasi con l’inaugurazione. Si dice felice di essere tornata, anche se i paesaggi brasiliani in cui si svegliava e con cui si sentiva un tutt’uno, faranno per sempre parte del suo cuore.


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Martina Bissolo
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