Viganò: ''essere straniero nella propria terra''. Elena Grebaz ricorda la drammatica storia del padre Luciano, esule istriano

Una diaspora rimasta sotto traccia per tanti anni. Cittadini stranieri nella loro terra, italiani non accettati come tali e dunque costretti a lasciare la loro terra. È la storia comune a tanti istriani che, per necessità, hanno abbandonato il loro paese per ricostruire una vita altrove. In occasione della giornata del ricordo, che si è tenuta lo scorso 10 febbraio, vogliamo proporre una di queste storie. Non un’esperienza diretta – ormai sono sempre meno i testimoni – ma di discendenza: Elena Grebaz, di professione insegnante, ha accettato di raccontare la storia di suo padre Luciano, esule istriano, nato nel 1933 a Santa Domenica di Visinada - oggi Labinci - un paese a pochi chilometri da Parenzo (oggi Porec), conosciuto per aver dato i natali a Norma Cossetto, che ancora oggi qui riposa.
Negli anni Cinquanta la famiglia decide di lasciare il suolo sul quale ha costruito fino a quel momento la loro storia: “Sono arrivati in Italia perché non accettavano il regime che si era instaurato. Chi non lo appoggiava, non aveva molta scelta – ha esordito Elena - Li stavano derubando della loro identità: non era concesso loro nemmeno di parlare italiano. Loro invece si sentivano di lingua e cultura italiana, mentre il governo li voleva croati. Volevano anche delle opportunità di lavoro e vivere secondo un modello italiano e non jugoslavo. Decidono quindi di partire perché si sentivano italiani ma, una volta arrivati qui, hanno capito che non erano desiderati. C’era paura di queste persone che venivano da un altro stato ma che, di fatto, erano italiani”.


Maria Rosa e Luciano Grebaz

I Grebaz sono scesi a Pola da dove partivano le navi, chiamate Profuganda proprio perché trasportavano i profughi. “La famiglia ha lasciato la casa e la vigna che possedeva e ha messo alcuni ricordi che poteva traportare in una valigia. Per portare via più vestiti, si sono messi un abito sopra l’altro”. Una volta arrivati a Trieste, è cominciato il viaggio tra i campi profughi, prima a Udine, poi a Cremona dove ci sono state le prime divisioni della famiglia: Elena oggi ha zie emigrate a Modena e in Australia.
Luciano è arrivato, insieme ai genitori, nel campo allestito a Monza, nelle ex scuderie della Villa Reale: qui, all’interno di una grande stanza che veniva consegnata a ciascuna famiglia, è stato ricavato un piccolo appartamento. “Mio nonno ha cominciato a lavorare come giardiniere nel parco di Monza, mentre nonna faceva da custode per il gruppo di famiglie che erano presenti”.
Il giovane Luciano, poco più che ventenne, ha cominciato a cercare delle opportunità di impiego, ma ben presto si è trovato a fare i conti con le discriminazioni: “Ha iniziato a lavorare in una ditta come tecnico ma, quando hanno saputo che era un profugo, lo hanno licenziato. Nella mia infanzia ho sempre sentito la parola profugo: per me significa tanto, anche se oggi si preferisce parlare di esuli. Questi profughi erano molto malvisti e i monzesi li vedevano come quelli che arrivavano a rubargli il lavoro, un po’ come succede oggi con i migranti” spiega Elena.
É seguita l’assunzione in Magneti Marelli a Sesto San Giovanni e, in seguito, presso una multinazionale di Milano, la sua migliore opportunità. “Papà aveva terminato le scuole superiori. Era un tecnico di laboratorio e conosceva le lingue: oltre all’italiano e al croato, aveva studiato il russo. Quest’azienda che produceva strumenti per il settore medicale e si occupava della manutenzione, era alla ricerca di una figura che conoscesse il russo per mandarla sul posto. Conoscere la lingua è stata la sua fortuna: lui rimaneva via per lunghi periodi”.
Luciano, a Monza, inizia a costruire anche la sua famiglia: a scuola guida, conosce Maria Rosa. Si sposeranno nel 1964, non senza reticenze da parte della famiglia della sposa: “Mia mamma raccontava che quando andava al campo profughi vedeva la povertà, ma erano molto accoglienti. Mio nonno materno, però, era perplesso da questa unione. Si era chiesto da dove venisse mio padre, temeva avesse già una famiglia in Istria e quindi era restio a dare il suo consenso”.
Nel 1965, a Monza, nasce Elena. Durante la sua infanzia sono risuonate parole sconosciute ai suoi coetanei: “Sentivo parlare di profughi e di foibe. Quando chiedevo spiegazioni a mio padre, mi diceva che era un pozzo, un buco nella terra”. Dopo qualche anno a Villasanta, la famiglia si è trasferita a Viganò. “Papà desiderava ritrovare l’ambiente di campagna, ma era anche un uomo di mare. Ha sempre sentito il richiamo per la terra di origine, anche se aveva dovuto abbandonarla. Ogni estate, a partire dagli anni Settanta, andavamo in Istria: io e mamma stavamo al mare, mentre lui andava a cercare gli amici e sulle tracce del passato. Nella sua casa, abitava un’altra persona. Quelli che sono rimasti lì hanno avuto le proprietà dei profughi, che hanno perso ogni diritto e non sono mai più stati risarciti”.


Luciano con la figlia Elena

Luciano raccontava spesso a Elena della sua vita in Istria: “Da giovane ha fatto il cine operatore, l’attore comparsa in un film ed era interessato al mondo del cinema. Raccontava di questo e della vita legata al mare: quando i giovani andavano a Parenzo, c’era vita e i ragazzi si ritrovavano e si divertivano. Poi è subentrata l’imposizione del regime e quindi il sogno di gioventù si è infranto. Mi raccontava del cibo, del vino, della vendemmia e di quello che si faceva nella società. Del campo, invece, mi ha raccontato tanti episodi, anche divertenti e di come all’interno si viveva la solidarietà. Lui ha avuto la fortuna di trovare il lavoro, conoscere la mamma e ricominciare la vita. Ha sempre avuto molti interessi: era radio amatore, dipingeva e cucinava. Era molto amato dagli amici, ma sapeva anche stare solo. La malattia gli ha impedito di vivere un po’ in serenità e pace. Sentivo proprio che mio padre aveva il desiderio della casa, forse perché aveva dovuto abbandonare la sua e quindi aveva bisogno di un luogo in cui vivere”.
Sono i ricordi di un’adolescente oggi divenuta adulta, che tuttavia non ha smesso di ricercare il suo passato familiare. Elena non ha infatti avuto l’occasione di poter conoscere in maniera approfondita la storia di suo padre, mancato a 58 anni a causa di una malattia. “Ero giovane, allora. Si parlava, lui mi raccontava molto. Io lo ascoltavo. Quando gli anni passano, c’è il desiderio di tornare alle origini e in me è nata una maggiore sensibilità nei confronti della storia della mia famiglia. Ho avuto la consapevolezza di quello che era successo e ho cercato di immaginare cosa significasse abbandonare la propria casa: sei vestito e parti, ma per dove? Non sai dove finirai”. Basandosi su questa esperienza personale, Elena ha scritto “Partenze”: “Ho scritto qualche racconto ispirato a quello che narrava mio padre, però non ho mai potuto scrivere un romanzo perché non c’è stato il tempo di conoscersi bene”.
In lei è rimasto il desiderio di andare sulle tracce della famiglia. “Sono tornata di recente in Istria, prima del Covid. Sono rimasti il cimitero, la chiesa e le vigne. Le case, invece, sono tutte cambiate: ora ci sono i villeggianti perché è a 20 chilometri dal mare”.
Che cosa è rimasto in lei di questo vissuto familiare? “Mio padre mi ha lasciato la nostalgia delle origini, ma anche il fatto di non sentirsi mai definitivamente a casa: ti senti sempre un po’ straniero. Rimane poi la dimensione del viaggio, di spostarsi, scoprire, trovare una nuova dimensione. Il viaggio non è visto come un viaggio di piacere ma è quello della vita, che ti porta in altri posti, anche se sai che i luoghi dell’anima sono altrove. È il luogo dell’anima l’unica dimensione che resta”.
Luciano, a differenza di altri istriani, non ha mai mutato il cognome: Elena ne è orgogliosa, pur con la consapevolezza che oggi spetta a lei continuare a tramandare il dramma vissuto da queste famiglie. Qualche anno dopo la morte del padre, ha trovato il libro di Umberto De Pace “l’esodo di istriani fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra. Testimonianze di cittadini monzesi”. “Mi sono messa in contatto con l’autore, ed è nata un’amicizia e una collaborazione. Abbiamo creato un reading che abbiamo portato nelle biblioteche, dove ci chiamavano per raccontare la storie delle persone. Sono tutte vicende umane, con le sofferenze di chi ha dovuto abbandonare la propria terra, come i migranti di oggi. Causa Covid l’anno scorso non abbiamo fatto nulla. Spero che l’anno prossimo si possa ricominciare perché è importante ricordare quello che è successo. Una volta non si parlava di questa tragedia, mentre ora se ne parla: sono vicende di italiani che si muovono, che migrano e quindi sempre dolorose e commoventi” commenta, rivelando di volerlo portare anche nella scuola dove insegna, la scuola secondaria di Costa Masnaga. “Ho la fortuna di poter raccontare, ogni anno, la storia di mio padre ai ragazzi. Abbiamo molti stranieri e vedo che questi ragazzi mi ascoltano in modo particolare: hanno alle spalle un vissuto di famiglie che si sono spostate. Si sentono vicini e io mi sento vicina a loro. Io non l’ho vissuto in prima persona, ma il tema delle migrazioni lo sento forte perché vissuto dalla mia famiglia e mi rendo conto di cosa voglia dire. É l’eredità della memoria che deve essere tramandata: ora è il mio compito, di parlarne e raccontare”.
La narrazione diventa importante per non tacere più storie a lungo dimenticate ma parte della storia del nostro paese.
Michela Mauri
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