Barzanò, crac I.L.ME: i due imputati spiegano le loro 'ragioni'

Dopo l'escussione del curatore fallimentare, quest'oggi la parola è passata agli imputati che hanno avuto così per la prima volta - non essendo stati sentiti in fase di indagini - la possibilità di fornire una loro giustificazione alle "operazioni" finite all'attenzione del collegio giudicante del tribunale di Lecco (con presidente il dr. Enrico Manzi e a latere le colleghe Giulia Barazzetta e Martina Beggio subentrata alla collega Maria Chiara Arrighi). Nella mattinata odierna si è tornati a parlare della fine della I.L.ME. Industria Lavorazione Metalli srl, società con sede a Barzanò dichiarata fallita nel 2016, dopo 36 anni d'attività come rimarcato più volte, rendendo esame, da P.B., chiamato a rispondere, insieme alla moglie P.A.G., dell'accusa di bancarotta fraudolenta quali soci al 50% dell'impresa e entrambi - pur in tempi e modalità differenti - amministratori della stessa. Nel dettaglio i coniugi sono a giudizio a seguito dell'emersione di un supposto "buco" - quantificato in circa 265.000 euro - frutto di due scelte, secondo il dr. Marco Canzi, escusso ad una precedente udienza. La prima aver proseguito l'attività sfruttando 300.000 euro di rivalutazione del capannone della società per mantenere il patrimonio netto in positivo fino al 2014 pur in presenza di perdite costanti che avrebbero - se fosse stato riadattato il valore dell'immobile - portato a dover anticipare la liquidazione. La seconda l'aver addossato alla I.L.ME. "operazioni senza senso economico" per la stessa per l'acquisto di un negozio poi ceduto in affitto - con un canone che a detta del curatore non copriva nemmeno le spese - a un'altra società della famiglia, con oggetto estraneo alle lavorazioni meccaniche, occupandosi di cani e gatti.
Alla signora P.A.G., infine, quale liquidatore, è contestata anche la bancarotta preferenziale per un pagamento fatto in favore di un istituto di credito che - come ha cercato di dimostrare il difensore Giudo Corti attraverso della documentazione - avrebbe però applicato tassi assai gravosi per il rientro, di fatto portando la donna a compiere una scelta quasi imposta e non in danno a altri creditori, come lei stessa oggi ha spiegato, ricostruendo le interlocuzioni che l'hanno portata a compiere le scelte ora contestate dalla Procura, con la pubblica accusa sostenuta in aula dal sostituto procuratore Paolo Del Grosso, subentrato alla collega Antonia Pavan.
Quanto ai capi d'imputazione "condivisi" marito e moglie hanno coralmente spiegato di aver acquistato a titolo personale il negozio poi venduto alla I.L.ME. che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto, nel tempo, trasformarsi di fatto in una società immobiliare con in pancia anche il capannone all'interno del quale la srl esercitava, per poi affittare entrambi gli immobili e garantirsi così una "pensione". Quanto al valore del capannone - che a detta del commercialista avrebbe salvato per anni il bilancio dell'impresa - P.B. ha riferito di tutte le migliorie introdotte nel tempo per rendere lo stabile "un gioiellino" appetibile sul mercato, contestando la valutazione compiuta dal perito dopo il fallimento. P.A.G., poi, occupandosi in prima persona della contabilità aziendale ha sostenuto come il commercialista che la seguiva mai le avesse parlato della necessità di procedere alla rivalorizzazione del bene. "Non abbiamo mai preso una lira in più" l'ultima spontanea dichiarazione dell'imputato, commosso dinnanzi ai giudici, prima del rinvio della causa al prossimo 25 marzo per la discussione.

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