Afghanistan: il punto di vista dell'onorevole Ferrari, membro della Commissione Difesa

Roberto Paolo Ferrari
Lo scorso 15 agosto i talebani sono entrati a Kabul, segnando un definitivo punto di svolta dell’offensiva avviata nel mese di maggio, a seguito del ritiro delle truppe Nato. Dall’aeroporto della capitala afghana ha preso il via un drammatico ponte aereo per evacuare il personale occidentale.
Abbiamo parlato della situazione con l’Onorevole Roberto Paolo Ferrari – ex sindaco di Oggiono – membro della Commissione Difesa della Camera dei deputati.
«Gli afgani addestrati dalle forze occidentali per vent’anni non hanno combattuto per respingere l'avanzata dei taliban dopo il ritiro [delle truppe occidentali] previsto dagli accordi di Doha» spiega Ferrari, ricordando come «sulla carta» il crollo dell’esercito afghano non fosse prevedibile. «Numericamente avevano la capacità di contrastare l'avanzata taliban» sottolinea il deputato. Come spesso accade nei teatri di guerra mediorientali – e come si è verificato anche in Iraq nelle prime fasi dell’avanzata dell’Isis – occorre prendere in considerazione fattori più complessi. Ad esempio, il legame fra i soldati e le entità politiche territoriali locali, spesso in contrasto con quelle statali, deboli nel caso afgano. «Va analizzato – sottolinea Ferrari - il motivo per cui combatti a difesa di qualcosa. E quel qualcosa è l'entità statuale afgana e chi la incarna ed i valori che rappresenta. Evidentemente queste non erano considerati degni di essere difesi combattendo e rischiando la vita».
Con i talebani alle porte di Kabul e la fuga all’estero del presidente Ashraf Ghani, abbandonare il paese con il ponte aereo delle truppe occidentali si è rivelata l’unica strada possibile per la popolazione afghana che non volesse ripiombare nell’infero di un nuovo regime islamista. Fra i molti civili che – ormai da giorni – tentano di lasciare l’Afghanistan vi sono anche numerosi collaboratori del personale militare e diplomatico italiano. Restando nel loro paese sarebbero esposti alle rappresaglie dei talebani.
«Mi sono occupato – ricorda Ferrari - fin da subito della questione degli interpreti e lavoratori delle basi del contingente, con interrogazioni parlamentari, la prima a febbraio che ha avuto risposta a giugno quando è partita l'operazione Aquila che ha spinto a portare in Italia i primi 280 collaboratori». Poi una seconda interrogazione «a fine luglio, perché col precipitare della situazione non era stato dato corso alla esfiltrazione di un totale di un migliaio di persone tra collaboratori e familiari. Un ritardo si diceva dovuto alle verifiche da bradipo del Viminale». In base alle risposte fornite dal Sottosegretario alla Difesa Pucciarelli nella seconda fase – quella attualmente in corso – dovrebbero essere almeno 400 i cittadini afghani da evacuare e trasferire in Italia.
Al termine di una missione internazionale durata vent’anni, restano non solo dubbi e perplessità di fronte l’evidente fallimento militare e politico, ma si manifestano anche pesanti incertezze sul futuro. A partire dal ruolo delle potenze occidentali, traumatizzate dalla crisi dell’atlantismo a guida statunitense. Con il fallimento della missione afghana emerge in modo pesante il fallimento e la fine dell’unipolarismo americano, sconfitto non solo sul piano militare, ma soprattutto su quello diplomatico ed economico.
«Da parte nostra andrà fatta una riflessione sulla partecipazione alle missioni internazionali, tenendo ben presente quali sono gli interessi nazionali quando si dovrà decidere se parteciparvi» chiarisce Ferrari delineando anche il suo punto di vista personale su quella che potrebbe essere la futura presenza italiana in Afghanistan: «Noi non potevamo rimanere come contingente senza gli alleati. Certo gli americani non hanno fatto una gran bella figura. Ora dal mio punto di vista bisognerebbe rimanere con una rappresentanza, non per riconoscere il governo taliban, bensì per monitorare da vicino, anche quanto da loro propagandato in questi giorni circa un nuovo volto, con più rispetto per le donne e una volontà di unità». «Non possiamo lasciare il campo ad attori come Cina, Russia, Turchia e all'influenza del Pakistan» conclude il deputato.
A ciò si aggiunge il pericolo del terrorismo islamico. Per decenni l’Afghanistan è stato il centro di addestramento per migliaia di terroristi che, dopo aver vissuto per mesi nei campi dei Mujaheddin o di Al Qaeda, sono tornati a condurre vite “normali” negli stati occidentali. Pronti però a rispondere alla “chiamata” del Jihad, ovunque sia necessario.
«L'Italia – ricorda Ferrari - ha pagato un pesante contributo di sangue per la stabilizzazione di un Paese che di fatto non si è concretizzata […]. Il pericolo islamista e del terrorismo islamico non è scomparso. Vedremo se tornerà ad avere anche una base statuale come avvenuto in passato. Non va sottovalutata poi la questione della coltivazione dell'oppio e del traffico degli stupefacenti che hanno sempre alimentato l'economia afghana e dei taliban».
L.A.
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