Maltrattamenti e stalking all'ex compagna: cingalese condannato a due anni e dieci mesi

Il tribunale di Lecco
Due anni e dieci mesi. E' la condanna inflitta dal collegio giudicante del tribunale lecchese nei confronti di un cingalese accusato di maltrattamenti e stalking nei confronti della ex compagna, con la quale all'epoca dei fatti risiedeva in un comune del circondario casatese.
Un epilogo giunto stamani al termine di un'istruttoria corposa: diversi i testimoni chiamati a deporre in ordine ai fatti contestati all'uomo, risalenti fra il 2019 e il 2020. Fra loro anche la datrice di lavoro della parte civile, che aveva assunto qualche anno fa la donna come collaboratrice domestica, raccogliendone le confidenze fatte di violenze fisiche e psicologiche patite durante la convivenza con l'imputato che non avrebbe accettato la fine della loro relazione, perseguitando l'amata anche dopo il suo allontanamento da casa.
"Ci sono state notti in cui la costringeva a stare seduta immobile sul divano, senza poter nemmeno andare in bagno, ad ascoltare lui che suonava la chitarra o che le spiegava come l'avrebbe uccisa" aveva raccontato in aula la testimone, in riferimento alla dipendente che a suo dire avrebbe sopportato tutto ciò, da donna innamorata, "perchè era convinta di poterlo salvare".
A metà gennaio del 2020 inoltre, la teste sarebbe stata chiamata dalla persona offesa mentre la stessa in auto, cercava di liberarsi dell'ex. Il cingalese - al volante della sua vettura - l'avrebbe infatti inseguita lungo una strada tortuosa, superando una serie di vetture in piena curva nel tentativo di farla fermare, arrivando quasi a speronarla in prossimità ormai della strada statale raggiunta dalla conducente per mettersi in salvo.
Non si era reso necessario invece, sentire il datore di lavoro dell'imputato che - stando alla ricostruzione affidata alla Procura - sarebbe intervenuto in alcune occasioni per cercare di calmare gli animi nell'abitazione dove la coppia viveva, arrivando addirittura a pagare una notte in albergo per la parte civile e la figlioletta per permettere loro di riprendersi dopo una serata eccessivamente animata.
Chiamato a deporre successivamente anche il figlio che l'imputato avrebbe avuto da una precedente relazione, secondo il quale all'origine del tutto ci sarebbe l'abuso di alcool da parte del genitore. ''Appena beve anche solo una o due birre va subito fuori" aveva riferito il giovane. "Ora sono tornato con lui perchè ha smesso, ma all'epoca della relazione con la signora si, beveva. Quando litigavano non succedeva nulla di che, magari erano litigi che partivano da battute o scherzi o gelosia".
Il giovane aveva tuttavia escluso ogni forma di violenza nei confronti della donna: "non metteva le mani addosso, magari rompeva dei piatti perchè gli venivano i raptus di rabbia ma non ha mai fatto del male a nessuno". Aveva quindi negato di aver saputo o di aver assistito ad episodi di violenza fisica nei confronti della ex compagna del padre o della figlia di lei, che ha convissuto nel casatese insieme alla coppia finché lei e la madre non se ne sono andate di casa.
Si era invece dichiarato ancora sentimentalmente coinvolto dalla donna, l'imputato. ''Non ho mai toccato nè l'una, nè l'altra con le mie mani. Ho sbagliato a trattarla male, non ce l'ho con lei. Voglio bene anche alla figlia, che la mia ex compagna ha detto essere mia perchè abbiamo avuto una relazione tanti anni fa e anche per lei io sono suo papà, anche se non c'è un test del dna a provarlo".
Dichiarazioni che tuttavia non erano state sufficienti per l'allora procuratore facente funzioni Alessandro Pepè che nel luglio scorso aveva chiesto la condanna dell'uomo a due anni e otto mesi, riconoscendo tuttavia all'imputato le attenuanti generiche nel calcolo della pena finale. Secondo il PM infatti, l'uomo avrebbe potuto fare un passo in più e ammettere che quando beve diventa violento ma non ha minimamente toccato l'argomento.
Alla discussione di parte civile e difesa, ha fatto seguito stamani la sentenza pronunciata dal presidente del collegio Nora Lisa Passoni - con a latere le colleghe Giulia Barazzetta e Martina Beggio - che ha condannato l'imputato ad una pena lievemente più elevata di quella chiesta dalla pubblica accusa: due anni e dieci mesi.
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