Presidente della Repubblica: quando la crisi dei partiti danneggia tutte le istituzioni

Non sono state le otto votazioni necessarie per rieleggere Mattarella a mettere in luce la crisi dei partiti. Per Saragat e Leone ne servirono più di venti. Ma, è stato il metodo a lasciar intravedere una crisi, profonda. E quanto questa crisi vada, chiaramente, oltre gli stessi partiti.

Candidati presentati e bruciati dopo poche ore. Ricorso alla candidatura di professionisti esterni alla politica: avvocati, banchieri, docenti universitari e diplomatici. L'incapacità di raggiungere un accordo di sintesi. Alleanze trasversali che variano più volte nell'arco della stessa giornata. Figure che rivestono ruoli istituzionali altissimi, impunemente candidate a una carica nei confronti della quale dovrebbero mantenere quel corretto ruolo di equidistanza previsto dall'assetto costituzionale. Gettate nella mischia come pedine di un grande gioco. Il cui fine ultimo non è stato la salvaguardia delle istituzioni, ma il consolidamento dei ruoli di segretari di partito e capi coalizione.

Di fronte alla sfida dell'elezione della più alta carica dello stato, garanzia dell'intero quadro istituzionale, il crollo dei partiti è stato sì evidente, repentino e traumatico, ma anche non limitato allo stesso sistema dei partiti. È andato oltre, ha travalicato i confini del Parlamento, rischiando di trascinare con sé anche le istituzioni democratiche e liberali. Una crisi, quella delle formazioni politiche, che è sotto gli occhi di tutti e in corso da diversi anni. Le convulsioni peggiori si sono viste nell'incapacità di formare un governo dopo le scorse elezioni, dando luogo a conflittualità che non hanno risparmiato nemmeno lo stesso Presidente della Repubblica. Ricordiamo la richiesta di impeachment, avanzata nel 2018, nei confronti dello stesso Mattarella per il solo fatto di aver esercitato le proprie prerogative.

Per delineare meglio il quadro e la profondità della crisi della politica ricordiamo anche le proposte di riforma in senso presidenziale del Paese, avanzate da decenni. Di fronte all'incapacità dei partiti di produrre politiche in grado di risolvere le problematiche sociali ed economiche, la risposta della stessa classe politica è stata la richiesta di riduzione degli spazi democratici e decisionali. Concentrare il potere nelle mani di poche figure. Eliminare i "pesi e contrappesi" del sistema. Seguendo l'equazione, falsa, che vorrebbe far corrispondere alla riduzione dei decisori l'aumento della qualità delle decisioni assunte. Tralasciamo la necessità ormai periodica per la politica - 1993, 2011, 2021 - di finire sotto commissariamento da parte di governi tecnici.

Le scorse giornate hanno evidenziato come necessitiamo di importanti riforme e cambiamenti. Indispensabili per far fronte alle sfide di un mondo che non è più quello del secondo dopo guerra o degli stessi anni Novanta e Duemila. La necessità è, però, quella di produrre riforme che vengano portate a compimento in modo tale da non danneggiare le diverse istituzioni democratiche e liberali del Paese. L'esatto opposto della riforma del numero dei parlamentari. Condotta con una logica "populistico - punitiva" rivolta a colpire la classe politica in quanto tale - basti pensare all'uso del termine "taglio" - ha finito per contribuire all'azione di delegittimazione, in corso da tempo, nei confronti dell'istituto parlamentare.

Nei prossimi mesi ci attende la riforma della legge elettorale. Una fase necessaria e delicata. Il rischio è che "le regole del gioco" competitivo fra i partiti diventino un nuovo fattore divisivo. Minando e indebolendo anche la legittimazione democratica delle forze politiche che usciranno vincitrici dalle urne alle prossime elezioni.

Lorenzo Adorni
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