Dopo la seconda guerra mondiale sono ancora molti i proiettili nelle strade d’Europa che ho calpestato
Volti vicini come quelli di Timisoara. Nel 1987 c'erano ancora le candele in piazza a Timisoara e all'Università di Bucarest, la gente non aveva un pezzo di carta dove mettere qualcosa da mangiare. I grandi negozi erano completamente vuoti, alla miseria si aggiungeva la tristezza. Era quasi impossibile trovare un bicchiere di latte.
In Irlanda del nord, a Belfast, una domenica mattina, all'angolo di una strada, la canna di un mitragliatore si piazzò davanti alla fronte. Era appena scoppiata una bomba in piazza.
Nel 1991 in Jugoslavia, un paio di mesi prima dell'inizio del disfacimento, le manifestazioni facevano presagire la disfatta. Un vecchio, a Srebrenica, mi invitò a partecipare al matrimonio mussulmano di una delle sue figlie, ripeteva che eravamo tutti fratelli, era spaventato, percepiva sulla pelle l'arrivo della morte e delle armi.
Altra scena è il muro di Nicosia che separa l'isola di Cipro in due parti. Uomini dell'Onu controllavano il passaggio.
L'altro grigiore fu quello della piazza San Venceslao, dove si è dato fuoco nel 1968 Jan Palach; il regime era ombrosamente presente e, come nel Castello di Kafa, si sentiva la presenza paranoica del controllo. Un senso di angoscia e di oppressione. Dopo la seconda Guerra mondiale sono ancora molti i proiettili nelle tante le strade d'Europa che ho calpestato. Si rimuove tutto.
Non è vero che da settant'anni c'è la pace. Basta fare quattro ore di auto per trovarsi immersi nel disastro della guerra civile, etnica in Jugoslavia.
La bestia che è dentro in ognuno di noi e nelle nostre società è sempre pronta a saltare fuori. Che tristezza profonda si prova nel dare ragione al vecchio Freud che aveva affermato che il male della civiltà esiste. Come aveva torto J.J. Rousseau nell'Emilio a sostenere che l'uomo in natura è buono.
Sono tre i colori dell'Ucraina che mi accompagnano: il blu dell'acqua del Dnepr, la distesa infinita di verde e il color ocra del grano con le sue piccole e misere case. Il verde immenso dell'Ucraina richiama l'infinito giallo ocra del deserto e l'orizzonte. Le condizioni socioeconomiche sono quelle che sono. Le contraddizioni sono palesi e non va dimenticato il conflitto/scisma della chiesa ortodossa di Kiev con quella di Mosca.
L'orso è in cerca di prede per soddisfare la sua impotenza. La pandemia e i conflitti presenti nella società russa sono palesi e costanti, come quelli in Bielorussia. Il pachiderma urla perché è terrorizzato di non farcela.
Un piccolo acquarello di un pittore, che ho incontrato sul fiume Dnepr, ogni giorno mi guarda e si rispecchia in un dipinto di una basilica Armena, anche lei costretta a vivere costantemente a rischio guerra. Anche in terra armena ho respirato, visto manifestazioni che annunciavano lo scontro, anche lì l'ombra onnipotente del Cremlino infettava l'aria con le molteplici fabbriche, attività economiche del vecchio regime chiuse e abbandonate.
In queste terre l'angoscia paranoidea della Piazza Rossa si sente. L'autonomia è solo un'apparenza, sono delle nuove fragili repubbliche.
Come europei opulenti ci scordiamo troppo presto delle nostre guerre regionali. Sono decenni che viviamo in mezzo a guerre, per non parlare di quelle che stanno appena dall'altra parte del mare nostrum. La situazione in Ucraina spaventa, preoccupa perché lo spettro è quello del nucleare. E, quando la leva del nucleare è in mano a pochi, il rischio è sempre alto.
Comunque vada, l'attuale anima che si aggira nelle stanze barocche del Cremlino dovrebbe uscirne politicamente perdente. Più che mai l'Europa è chiamata a definirsi, se non vuole restare una bella ingenua principessa ed essere preda dell'inganno di Zeus.