Molteno, ingegnere nucleare e ricercatore: Alessio Magni racconta la sua esperienza
Alessio Magni intervistato da Andrea Besati
Come mai ha scelto di studiare ingegneria nucleare?
Fin da piccolo ho sempre avuto una passione prima per la matematica e poi, una volta arrivato al liceo scientifico, per la matematica applicata alla fisica. Il momento in cui ho deciso di trasformare questa passione nella mia vita è stato durante una conferenza a cui ho assistito alla fine della quarta superiore. L'evento era incentrato su atomi, nuclei, radiazioni, onde gravitazionali e vi partecipavano alcuni eminenti professori di fisica. Sono rimasto veramente colpito da quegli interventi. Ho così maturato l'idea di realizzare la mia tesina di maturità sulle onde gravitazionali e poi di approfondire i temi legati alla fisica nucleare all'università. Tuttavia, non volevo rimanere sul teorico ma studiare anche il lato applicativo. Per questo ho optato non per un corso di fisica ma per una triennale in ingegneria. Al Politecnico di Milano, però, non esiste la triennale in ingegneria nucleare e quindi ho scelto ingegneria fisica. Questo corso, infatti, al terzo anno prevede degli esami propedeutici all'ingresso nella magistrale in ingegneria nucleare.
Per quale motivo, una volta conseguita la laurea, ha scelto di proseguire i suoi studi con un dottorato?
Anche in questo c'è un punto di svolta molto chiaro: il lavoro che ho svolto per la tesi di laurea magistrale. È stato in quella sede, infatti, che ho capito davvero cosa vuol dire fare ricerca in ambito nucleare. Fino a quel momento ero indeciso se proseguire con un dottorato oppure iniziare a cercare lavoro dopo la laurea. L'esperienza della tesi mi è piaciuta e mi ha coinvolto talmente tanto da eliminare ogni dubbio. Ho quindi fatto application per la borsa di dottorato con un progetto che approfondisse ulteriormente il lavoro che stavo svolgendo. Nello specifico, sia nella tesi sia poi nel dottorato mi sono concentrato su aspetti del processo di produzione di energia nucleare e della sicurezza degli impianti.
Quali sono le principali difficoltà che deve affrontare chi vuole lavorare come ricercatore in Italia? Ritiene che la ricerca in Italia sia finanziata in modo adeguato?
No, assolutamente la ricerca in Italia non è finanziata in modo adeguato. Lo si nota innanzitutto se si confrontano le strutture: i ricercatori delle nostre università, soprattutto quelli che conducono attività sperimentali, hanno a disposizione molti meno spazi e molti meno impianti per lo sviluppo dei propri studi rispetto ai loro colleghi europei. Per fare un esempio, i politecnici di Losanna e Zurigo hanno a disposizione un budget dieci volte superiore a quello del Politecnico di Milano, prima università tecnica in Italia. L'altro lato su cui impatta la mancanza di fondi è lo stipendio mensile. Parliamo di una base media di circa millecento euro al mese per i tre anni di dottorato, per fortuna incrementati dal Politecnico di Milano con fondi propri. Ma non è solo una questione di soldi: fino a quando non si riesce ad ottenere il posto di professore associato la carriera di ricercatore è del tutto precaria.
Ritiene che il settore della ricerca funzioni secondo logiche meritocratiche?
Ovviamente ti rispondo sulla base della mia esperienza al Politecnico. Il fatto che il merito sia alla base di molti passaggi e molte selezioni lo si coglie innanzitutto dalla struttura dei bandi. Nell'ambito dell'assegnazione delle borse di dottorato, si viene valutati sulla base del proprio cv, della lettera di motivazione, del progetto di ricerca, di un colloquio orale. Ad ogni elemento vengono assegnati dei punti secondo delle modalità oggettive. Poi certo, siamo sempre degli umani valutati da umani ma di situazioni spiacevoli non ne ho viste. Allo stesso tempo, è fondamentale avere una buona dose di fortuna: l'esistenza o meno di una posizione aperta per cui fare application nel momento in cui si sono ottenuti tutti i requisiti necessari fa tutta la differenza del mondo. Siamo usciti dalla laurea magistrale in 50, le borse di dottorato per il settore nucleare erano 5. È chiaro che posto per tutti non c'era.
Ritiene che in Italia sia possibile conciliare la carriera da ricercatore con la creazione e il mantenimento di una famiglia? Perché?
Come dicevo, quella del ricercatore è una carriera fatta di contratti a tempo. Tra quando si finisce il dottorato e quando si ottiene il posto di professore associato possono passare anche dieci anni. Stiamo parlando di un decennio trascorso con contratti di un anno, rinnovati in base ai fondi disponibili, in attesa dell'apertura di una posizione da professore, che comunque corrisponde ad un bando per cui bisogna avere determinati requisiti e che bisogna vincere. Mi sembra chiaro che gli ostacoli sono dietro l'angolo. Per di più, il lavoro di ricercatore non ha orari. Mi è capitato diverse volte di lavorare la sera, il sabato o la domenica per riuscire a rispettare una scadenza. Non è questione di arrivare in ritardo, semplicemente ci si dedica a tante attività in parallelo, spinti dalla voglia di farsi conoscere e di costruirsi la carriera. Ci tengo però a dire una cosa: trovare un compromesso tra vita privata e carriera da ricercatore è possibile.
Consiglia di intraprendere l'attività di ricercatore in Italia o all'estero? Perché? Quale paese consiglia quando si parla di ricerca nell'ingegneria nucleare?
Noi ricercatori italiani, soprattutto se usciti dal Politecnico di Milano, all'estero siamo molto apprezzati per la solidissima base di matematica e fisica che abbiamo costruito durante gli studi e che ci portiamo dietro nel momento in cui facciamo ricerca. All'estero, i dottorati sono molto più focalizzati sugli aspetti pratici e applicativi. Al di là di questo, è chiaro che nel settore nucleare i due paesi di riferimento sono la Francia a livello europeo e gli Stati Uniti a livello internazionale. In Francia dispongono di più di cinquanta reattori nucleari commerciali, hanno il più grosso centro di ricerca sul nucleare in Europa e così via. È un paradosso che due paesi confinanti come Francia e Italia siano agli antipodi sulla questione del nucleare. Ma ci vorrebbe un'intervista ad hoc solo su questo discorso.
C'è qualche altro suggerimento che vorrebbe dare agli ingegneri che stanno valutando di conseguire il dottorato per poi entrare nel mondo della ricerca?
Fare un dottorato è un po' come essere un "lavoratore autonomo" nella ricerca. Si sceglie un progetto inerente ai temi che si desiderano approfondire e bisogna portarlo a termine. Ciò che conta è il risultato, per il resto si è liberi di individuare la via migliore per raggiungerlo. Questo apre le porte non solo all'apprendimento di nuove nozioni tecniche, come per esempio un linguaggio di programmazione, ma anche a occasioni di crescita personale. Svolgere un internship all'estero o presentare il proprio lavoro durante una conferenza consente di rafforzare le cosiddette soft skills, ossia la capacità di parlare in pubblico, di realizzare un power point efficace, di scrivere un articolo scientifico, di lavorare in team. E poi non c'è niente da fare: alcune posizioni lavorative, come il professore universitario o il ricercatore in un centro di ricerca, quindi non in ambito accademico, richiedono il titolo di dottorato.