Castello B.za: Cristian Giovenzana e il suo quarto anno di liceo trascorso a Las Vegas

Lasciare tutto ed andare per un anno dall'altra parte del mondo. A neanche diciotto anni. Non è una decisione facile da prendere. Eppure, Cristian Giovenzana, classe 2004, residente a Castello di Brianza, lo ha fatto. Con il pieno supporto dei genitori, il giovanissimo studente di liceo linguistico ha deciso di partire per trascorrere il suo quarto anno di scuola superiore non ad Oggiono ma a Las Vegas, Nevada. Da qualche mese è di nuovo a casa ed oggi, a dieci giorni dalla ripresa delle scuole, ha accettato di condividere con noi le sue riflessioni a proposito di quell'esperienza. Questo non è il resoconto di un anno di baldoria come qualcuno potrebbe pensare. È un piccolo spaccato, raccontato con lucidità e consapevolezza, di un mondo diverso dal nostro, quello americano. Un mondo che, come tutti quelli diversi dal nostro, dovremmo conoscere di più per superare pregiudizi e semplificazioni.

 


-Come mai hai deciso di trascorrere il quarto anno di liceo negli Stati Uniti?

Ho iniziato a viaggiare fin da quando ero molto piccolo. A 10 anni sono andato per la prima volta da solo a Londra. Da quel momento in poi, ho fatto un viaggio praticamente ogni estate. Mi piace molto viaggiare e anche in futuro mi vedo molto più all'estero che qui in Italia. Allo stesso tempo, pur padroneggiando bene l'inglese dato che faccio il linguistico, sentivo che mi mancava qualcosa da quel punto di vista. E poi sapevo che fare un'esperienza simile mi avrebbe fatto crescere come persona. Per questo ho deciso di partire. Certo, i dubbi erano tanti. Ho dovuto lasciare la famiglia, gli amici, la squadra di calcio da capitano. Non ero sicuro che mi sarei adattato. Non ero sicuro che al mio ritorno avrei ritrovato le cose come erano prima, le stesse amicizie. Ma sono partito e consiglio a tutti di farlo se ne hanno la possibilità.



-Come sono andati i primi mesi? Hai incontrato qualche difficoltà nell'adattarti alla nuova famiglia?

In realtà, per me l'adattamento è stato molto semplice. Con la famiglia ospitante è scattato subito un forte feeling. Anche a livello di amici io e gli altri studenti stranieri siamo stati accolti molto bene. I ragazzi americani ci aiutavano a scuola e ci portavano in giro in macchina la sera. Lì, infatti, a 16 anni si può prendere la patente. Certo, ci sono tanti cambiamenti a cui bisogna adattarsi ma fa parte dell'esperienza e ti porta a metterti in gioco a 360 gradi. Sicuramente il fatto di non essere in un piccolo paesino ma in una grande città come Las Vegas ha aiutato. Al di là di questo, credo di essere stato fortunato. La coordinatrice locale dell'agenzia, ovvero la persona che si occupa di individuare la famiglia adatta per ogni ragazzo straniero ha fatto un lavoro davvero splendido con noi.



-Parlando della scuola, che cosa ti ha colpito delle superiori statunitensi?

L'idea di scuola superiore che c'è negli Stati Uniti è totalmente diversa da quella italiana. È innanzitutto una questione di mentalità. Qui si inizia dopo le 8, ci sono le lezioni frontali, le verifiche, le interrogazioni e poi si va a casa. Li non è così, la scuola non è solo questo. Negli Stati Uniti la prima campanella suona alle 7, quando arriviamo a scuola c'è la colazione gratis. Mentre qui in Italia una volta scelto l'indirizzo della scuola superiore si è vincolati a fare determinate materie, lì c'è molta più possibilità di scelta durante il percorso. Ci sono gruppi di materie tra cui bisogna sceglierne per forza una ma poi ci sono tutta una serie di corsi assolutamente a scelta. Io ho iniziato a studiare giapponese e ho avuto la possibilità di appassionarmi alla psicologia. A questo proposito, nella mia scuola, frequentata da 4000 studenti, c'erano 9 tutor disponibili ogni giorno, anche in orario extra - scolastico. solo per dare supporto psicologico agli studenti. Gli stessi professori erano molto disponibili ad aiutarti se necessario. Insomma, andavo a scuola perché ero contento di andare a scuola, non perché dovevo.



-Questo sistema garantisce la stessa qualità della preparazione della scuola italiana? Pensi ci sia un eccesso di competitività?


La preparazione, l'attitudine allo studio, la disciplina nel lavoro che abbiamo noi studenti italiani non la hanno non solo in America ma nemmeno in Europa. Ne ho parlato con altri studenti europei e credo che questo sia un nostro grande punto di forza su cui loro non possono contare. Per quanto riguarda la competitività secondo me questo non è un problema che riguarda la scuola. A livello scolastico è una cosa molto individuale, ognuno fa le sue scelte. Per ogni materia ci sono corsi di difficoltà diversa e solo i corsi più difficili danno crediti per il college. Da questo punto di vista, è molto importante un esame che fanno in tutto lo stato ogni anno. Il livello delle superiori negli Stati Uniti varie da stato a stato e questo esame, dove ci sono quesiti di matematica, scienze e inglese, dà modo ai college di capire il livello di preparazione degli studenti. La competitività è qualcosa che si sente molto di più nello sport.



-Sappiamo che sei un calciatore di talento, ti va di raccontarci meglio questo aspetto?

Io stesso ho ricevuto diverse offerte di borse di studio per giocare nelle squadre di calcio dei college. Bisogna giocare bene, fare campus su campus e vincere per ricevere queste proposte. La competizione è molto agguerrita, non solo nel calcio ma in tutti gli sport. Del resto, i soldi stanziati dai college non sono infiniti. Però voglio sottolineare un'altra cosa su questo argomento: le infrastrutture. La mia scuola aveva 6 campi da tennis, 4 campi da basket esterni e due interni, 2 campi da pallavolo, il campo da baseball, il campo da calcio, la pista di atletica e un piccolo stadio per il football. La stessa scuola aveva impianti di aerazione perfettamente funzionanti sia in estate sia in inverno. In biblioteca c'erano 14 Mac a disposizione degli studenti. Sono cose assolutamente inimmaginabili in Italia.



-C'è qualcos'altro di questa tua esperienza negli Stati Uniti che ti va di raccontarci?

Un giorno a scuola sono arrivati i supporters di Donald Trump e hanno iniziato a fare casino. Insultavano le persone di colore. Li, gli insulti razzisti vengono presi molto sul personale. Sono scoppiate una serie di risse e c'è stato un hard lockdown. È una procedura a cui loro sono addestrati qualora nella scuola entri qualcuno con le armi. In pratica la porta blindata dell'ingresso è stata chiusa a chiave, le porte delle classi sono state chiuse a chiave, le luci sono state spente. Tutto questo fino a che la situazione non si è normalizzata. Il giorno dopo a scuola non c'era praticamente nessuno perché si era diffusa la voce che le persone con cui i sostenitori di Trump si erano scontrati sarebbero arrivati con le armi. Su 36 studenti al corso di psicologia eravamo in 3. I professori ci hanno ringraziato per essere venuti. La paura delle stragi a colpi di arma da fuoco nelle scuole è molto sentita. Mi è capitato un'altra volta di essere coinvolto un hard lockdown e in quel caso il professore ha dovuto chiamare la dirigenza per avere il permesso di far rientrare in classe una studentessa rimasta fuori. Era solo andata in bagno ma non si può mai sapere chi c'è davvero dietro la porta. In quel caso in realtà il problema non era legato ad armi ma ad un ragazzo che voleva buttarsi. Per fortuna poi glielo hanno impedito.



-E ora, quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Innanzitutto, il diploma e poi l'università. Non so se farla in Italia o all'estero, per esempio a Londra. Mi piacerebbe studiare economia ma vorrei anche mantenere le lingue che ho imparato al liceo, ovvero spagnolo e tedesco. Sarebbe bello anche proseguire con il giapponese o avvicinarsi al russo o all'arabo. Ci dovrò riflettere nei prossimi mesi.
Andrea Besati
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