Morto un Papa non se ne fa un altro
Stefano Motta
C’è molta faciloneria in chi assume questa identificazione: in Dante il passaggio è criptico, e i suoi più intelligenti interpreti a partire da Petrarca e da Boccaccio proposero subito altre ipotesi, da Diocleziano a Esaù. Poi vennero i commenti scolastici e la complessità del mondo dantesco venne ridotta alla banalità delle note a piè pagina.
E ce ne fu molta di più in quanti, richiamando questo passo, accusarono implicitamente di “viltà” un uomo anziano e mite, che ebbe il coraggio di farsi da parte in nome di un bene più grande, la Chiesa. Venivamo da un pontificato dalla conclusione eroica e quasi tragica, con la fatica fisica di Giovanni Paolo II esposta alle riprese televisive di tutto il mondo (fu vero eroismo? Fu vera dignità?) e pareva che quello fosse il modello gladiatorio cui ogni successore dovesse conformarsi.
Adesso che Benedetto XVI, che prese il nome del monaco fondatore dell’ordine dei benedettini, uno dei veri padri dell’Europa, si è spento, il cordoglio e la stima sembrano unanimi, e ogni implicita accusa di viltà è sepolta sotto la pietà che l’anzianità e la morte riconoscono a tutti.
Per quanto possa io anche avere le competenze teologiche per riflettere sul magistero del teologo Joseph Ratzinger divenuto poi papa Benedetto, mi affascina rendermi conto di come, ora e purtroppo solo ora, abbiano capito quanto possa essere coraggioso, e persino “santo”, un passo indietro.
Per quanto gli storici si arrovellino nel cercare corrispondenze e somiglianze, nessun pontificato è mai uguale ai precedenti, e nessuno è indispensabile alla Storia. “Morto un papa – dice l’irridente saggezza popolare – se ne fa un altro”. Adesso questo detto non vale, perché un altro papa in carica già c’è. Ma se venisse, prima o poi, un altro Benedetto, ci troverebbe pronti a capirlo?
Stefano Motta