Bosisio, La Nostra Famiglia: 33 bambini ucraini accolti e curati. 'Serve un modello di SSN diverso, vicino ai bisogni'
Il dr. Massimo Molteni
L’impegno della Nostra Famiglia significa anche essere testimoni delle parole del Fondatore dell’Associazione, don Luigi Monza, che disse: “C’è una parola che rintrona tutti i giorni le nostre orecchie; questa parola è «la solidarietà». Solidarietà umana; dico umana perché umano è il campo nel quale si attua. Il vicino risponderà della salvezza del vicino”.
Dall’inizio della guerra, La Nostra Famiglia ha accolto 33 bambini ucraini, compiendo un ampio lavoro di rete per rispondere a tutte le necessità che si sono presentate. Laura Baroffio, responsabile comunicazione interna, Massimo Molteni, direttore sanitario nazionale (responsabile medico delle aree di degenza ospedaliera) e Anna Fumagalli, assistente sociale dell’associazione ci hanno offerto uno spaccato preciso del percorso fatto da questi minori e una riflessione più ampia sul modello di cura oggi presente nel nostro stato.Dopo i primi giorni dallo scoppio della guerra – nel febbraio 2022 - l’associazione ha confermato alla Caritas Ambrosiana e alla Prefettura la propria disponibilità ad accogliere minori profughi ucraini con necessità di cure ospedaliere e riabilitative. Da quel momento sono state molteplici le richieste di aiuto ricevute con i primi contatti da parte di pediatri del territorio, medici neuropsichiatri infantili, volontari che hanno accolto i minori e i loro familiari, parenti che già vivono in Italia da tempo, servizi sociali territoriali, Caritas e parrocchie. Diversi sono stati i canali che hanno portato le famiglie ad avvicinarsi all’associazione. La maggior parte dei minori presentava già una diagnosi ricevuta nel loro paese, ma per poter essere inseriti all’interno del sistema scolastico, con tutti gli aiuti previsti – soprattutto per la parte riabilitativa e linguistica - avevano bisogno di una rivalutazione funzionale.
La sede di Bosisio
“Presso la sede di Bosisio Parini abbiamo accolto per lo più bambini in età scolare, scappati qui in Italia con la loro mamma e, a volte, con altri fratelli o sorelle. Per tutti è stato svolto un inquadramento clinico funzionale e in alcune situazioni è stato possibile proseguire con la riabilitazione, o presso i centri territoriali de La Nostra Famiglia o con l’aiuto dei servizi sociali, anche presso realtà più vicine al luogo di domicilio – hanno spiegato i professionisti della struttura - Nella maggior parte delle circostanze sono arrivati in struttura mamma e figlio/a e, come loro hanno dovuto ambientarsi in un contesto in cui si sono trovati quasi catapultati, del tutto nuovo, con una lingua diversa, con la necessità di tradurre la documentazione sanitaria in loro possesso per poter chiedere aiuto, così gli operatori, di diverse professionalità, hanno cercato di imparare modalità e linguaggi nuovi per comunicare con loro, per farli sentire accolti e dare loro una risposta, competente e generosa, ai bisogni clinici e umani”.
Si è reso necessario il supporto di mediatori culturali e dei centri di accoglienza, soprattutto per costruire una rete in grado di far sentire il minore e la sua famiglia accolti e che potesse aiutarli nel recuperare la documentazione sanitaria necessaria al ricovero, come la verifica della prima visita e i tesserini sanitari provvisori.
È stato attivato un importante lavoro di coordinazione e rete con le Istituzioni del territorio al fine di garantire un'adeguata assistenza ed accoglienza abitativa a seguito della dimissione ospedaliera.
“Le difficoltà iniziali riscontrate nel comunicare hanno però trovato tanta gratuità e solidarietà e anche i minimi ostacoli sono stati superati – hanno confermato i referenti della struttura - Affrontare questa situazioni nuove di bambini e ragazzi con disabilità scaraventati in un altro contesto completamente altro da quello dove vivevano, con una lingua totalmente differente, non sarebbe stato possibile senza una sincera passione e volontà di venire incontro a queste sofferenze. E, dopo il primo sconcerto, gli operatori coinvolti si sono resi disponibili ad andare oltre la puntuale applicazione delle loro competenze tecniche per entrare in una profonda relazione umana, affrontando le difficoltà linguistiche (l’ucraino non è una lingua facile), spesso aggravate dalla condizione patologica di cui queste persone erano portatrici, ad esempio l’autismo che di per sé rende difficoltosa proprio la comunicazione”. Questa disponibilità si è sommata alla disponibilità di altre persone che – conoscendo la lingua – si offrivano a fare da “mediatori” con queste giovane mamme, sofferenti in quanto “profughe” e in quanto mamme di bambini con disabilità o sofferenza neuropsichica. “Anche se tutto questo costava maggior impegno e fatica, la disponibilità a farsi carico di questi bisogni non è venuta mai meno e si sono avuti soddisfacenti risultati resi evidenti anche dai numeri dei bambini con gravi fragilità neuropsichiche che sono stati assistiti” hanno confermato Baroffio, Molteni e Fumagalli.
“È un'esperienza che ha fatto toccare con mano come sia possibile coniugare e dare attuazione al vero cuore della mission dell’Associazione, prima ricordato, anche in situazioni tecnicamente molto difficili, quando tutte le diverse figure, da quelle dirigenziali, agli operatori e ai volontari, si ritrovano a perseguire la stessa finalità: rispondere ad un bisogno emergente che genera sofferenza. E questa esperienza ci insegna come, quando la finalità del lavoro sanitario e sociosanitario non è distolto o addirittura oscurato da altri obiettivi che nulla hanno a che fare con la cura e l'assistenza, si possono ottenere straordinari risultati che testimoniano la ricchezza del cuore dell’uomo, oltre che la professionalità di chi lavora nella associazione”.
La riflessione dei professionisti si è spinta oltre fino a considerare i profughi provenienti da tanti altri paesi: “Il rimpianto va al pensiero di come per altre tipologie di profughi lo Stato non abbia dato la possibilità di riconoscere celermente e in maniera burocraticamente snella il diritto alle cure, come opportunamente in questo caso è stato fatto. E questa concreta esperienza fatta conferma come la cura e l'assistenza di molte persone fragili e disabili sarebbe migliore se l’intero modello organizzativo derivante dalle norme sanitarie nazionali e regionali non fosse piegato al perseguimento principalmente di finalità economiche che finiscono per snaturare ciò che è il vero fondamento di ogni processo sanitario e riabilitativo: la relazione di cura. Sentirsi punto di riferimento per rispondere a bisogni clinici così specifici, ha moltiplicato i nostri sforzi per non tradire le aspettative di tutti coloro che si sono mobilitati in favore di questi profughi: esempio concreto di welfare partecipativo”.
La chiosa finale, alla luce di un modello che si è rivelato estremamente valido per andare incontro ai bisogni: “La fatica è stata tanta, ma è stata largamente ricompensata dal sentirsi parte di un territorio che ha saputo mobilitarsi per venire incontro a queste sofferenze. L’augurio è che questo modello di mobilitazione e di collaborazione sia presente anche nella ordinarietà quotidiana, di fronte alle tante sofferenze di altri bambini e di tante famiglie che, anche senza essere profughe, necessitano di trovare oltre alla competenza anche la fondamentale relazione di cura. Serve un modello di servizio sanitario nazionale differente, meno burocratico e più vicino ai bisogni autentici delle persone”.
Michela Mauri