Episodi di violenza quotidiana, patriarcato e 25 Novembre. Ma il tragico epilogo si deve evitare
91 donne su 100 delle donne intervistate hanno subito, almeno una volta nella loro vita, violenza fisica, verbale o psicologica.
Questo risultato agghiacciante non si rifà a dati raccolti lontano da noi, quasi intangibili.
È bensì quanto emerso da una ricerca fatta da me su cento donne di qualsiasi età residenti in provincia di Lecco. Potrebbe essere la ragazza seduta di fianco a te sul treno, l’insegnante di scuola di tuo figlio, la donna che lavora come cassiera nel supermercato in cui vai tutti i sabati mattina. Non una donna distante, lontana, ma una vicinissima a te, a noi.
91 donne su 100, nella loro vita e probabilmente più di una volta, si sono sentite minacciate da un uomo o più, si sono viste rivolgere dei “complimenti” non desiderati, dei fischi per strada, delle toccatine che forse quegli uomini hanno valutato come scherzose, innocenti.
Oggi, 25 novembre, si ricorda la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne: si colorano panchine di rosso, si scrivono frasi di rispetto come “le donne non si toccano neanche con un fiore”. I social e la tv si riempiono di simboli di sostegno, simboli fini a sé stessi perché poi, effettivamente, cosa si fa per risolvere questa piaga sociale?
Chi non è di sicuro innocente, in questa storia, è il nostro Paese. Un Paese che mette delle toppe quando le donne vengono picchiate, violentate, uccise.
Un Paese che parla per settimane al telegiornale, nei salotti dei talk, dell’ennesima donna ammazzata dal marito, dal compagno. Un Paese che ci tormenta con frasi come ''lui aveva già mostrato segni di estrema gelosia, lei aveva già denunciato. Poi il tragico epilogo''.
Tragico epilogo. In questi due vocaboli c’è racchiuso proprio il senso di quello che voglio comunicare oggi, con queste parole, che si sommano alle migliaia espresse in occasione di questa ricorrenza. Quando una donna scompare, per più di qualche giorno, tutti pensano al ''tragico epilogo''. Viene naturale pensare che sia stata uccisa, a sangue freddo. Ci si immaginano già i titoli dei giornali: ''ennesimo delitto d’amore'', e lo Stato guarda, si rammarica, dice qualche parola in merito e poi vuoto fino al femminicidio successivo. Forse per questo motivo, 95 donne su 100 tra le intervistate, hanno condiviso con me il loro pensiero secondo cui l’Italia non sia un Paese sicuro per loro: si sentono minacciate camminando per strada la sera, quando scendono dal treno e il sole è già tramontato, quando entrano in bar da sole e gli uomini le fissano.
Da settimane ormai sentiamo parlare del film più discusso dell’anno, che ha riscosso un enorme successo ottenendo 20 milioni di euro di incasso: C’è ancora domani, di Paola Cortellesi.
Un film ambientato negli anni Quaranta, che parla di donne picchiate, violentate, danneggiate psicologicamente dai loro compagni. Donne che hanno fatto la storia del nostro Paese senza saperlo, che hanno lottato per consentire un’educazione ai figli e alle figlie scarificando loro stesse, piegandosi al volere del patriarcato. Donne che non avevano modo di scappare perché non esistevano i telefoni donna, i centri antiviolenza, che sono invece oggi una salvezza per tante, purtroppo non per tutte.
Ci tengo in questo senso a ricordare l’immenso lavoro svolto quotidianamente da L’altra metà del cielo – Telefono donna di Merate, un sodalizio importantissimo per il nostro territorio composto da decine di donne che ogni giorno si spendono per salvare le vite di altre, ospitandole in strutture di primo soccorso per salvare da mariti e compagni violenti. Solo poche settimane fa, ricordavamo che da gennaio di questo anno al 1° novembre, le donne che si sono rivolte allo sportello Antiviolenza sono state 149, con una crescita di richieste tra le giovani.
In tutto questo lo Stato osserva, ricorda il 25 novembre, lo fa senza rispetto.
Senza rispetto perché sono sempre le donne che si devono nascondere, che devono scappare, cambiare identità, cambiare vita. Da quando è la vittima che deve trovare un nascondiglio? Perché lo Stato obbliga le donne che si devono proteggere a ''chiudersi in una gabbia'' per salvarsi e lascia libero chi invece spaventa, picchia, violenta? Perché quando una donna trova la forza di denunciare non agisci subito, caro Stato, ma lasci che venga uccisa? Perché permetti che nel nostro Paese avvenga un femminicidio ogni tre giorni?
Siamo ormai troppo abituati a definire un uomo che uccide una donna come un ''mostro che ha avuto un raptus di gelosia''. Ma non è un mostro, è un uomo, e non è un raptus, è l’ambiente nel quale è cresciuto, la cultura nella quale ha potuto sguazzare per anni, quella stessa cultura che permette che le donne abbiano uno stipendio inferiore rispetto agli uomini quando svolgono lo stesso lavoro, quella cultura che difficilmente permette ad una donna di arrivare a ricoprire alte cariche e che quando succede, o si pensa che sia arrivata dov’è perché fin troppo affabile con gli uomini, oppure si continua a definire il ruolo che ricopre con il maschile il. Il maresciallo, il medico, il presidente, il primario. Se andiamo avanti a pensare che questo contorno non sia importante e che la violenza sia un ''raptus'', un caso isolato, un impulso improvviso scollegato da quanto avviene all’interno della società, beh…allora siamo complici.
E questo stigma patriarcale e maschilista è profondo e radicato nelle nostre azioni, nei nostri gesti, nelle nostre parole. Perché una donna deve essere forte ma anche accondiscendente, divertente ma mai sboccata, libera ma attenta alle esigenze della sua famiglia, caparbia ma anche pacata, sensuale e provocante ma mai scostumata. Mentre un uomo, deve essere solo una cosa: un uomo.
Di seguito, alcune delle testimonianze raccolte attraverso la ricerca già citata.
“Quando passeggio, faccio commissioni, tendo a controllare a chi mi avvicino, cosa faccio e quando. Cerco di non fare nulla per attirare l’attenzione, in special modo quando è buio”.
“Girare da sole è come avere un bersaglio sulla schiena. La cultura maschilista presente nella nostra società tende a considerare le donne come oggetti privi di diritti e di fatto ne impedisce la realizzazione come cittadine”.
“La violenza verbale, il fischio per strada, sono diventati normalità. Ho sempre più paura che il commento spiacevole possa trasformarsi in qualcosa di peggiore. La sera, da sola, evito di uscire di casa”.
“Gli uomini commentano quando non è necessario, se sei in giro da sola spesso ti senti inseguita”.
Se sei vittima di violenza puoi contattare il numero gratuito 1522, attivo tutti i giorni 24 ore su 24. Per agire in modo silenzioso, puoi chattare con gli operatori scaricando l’app “1522 Anti Violenza e Stalking”.
In alternativa puoi metterti in contatto con L’altra metà del cielo – Telefono donna di Merate al numero 039 9900678 o recarti agli sportelli di accoglienza in Via Sant'Ambrogio, 17 - 23807 Merate (LC) a questi orari: sportello di accoglienza il lunedì dalle 16.00 alle 18.00, sportello stalking il sabato dalle 9.00 alle 12.00.
Non sei sola. Non hai colpe.
Questo risultato agghiacciante non si rifà a dati raccolti lontano da noi, quasi intangibili.
È bensì quanto emerso da una ricerca fatta da me su cento donne di qualsiasi età residenti in provincia di Lecco. Potrebbe essere la ragazza seduta di fianco a te sul treno, l’insegnante di scuola di tuo figlio, la donna che lavora come cassiera nel supermercato in cui vai tutti i sabati mattina. Non una donna distante, lontana, ma una vicinissima a te, a noi.
91 donne su 100, nella loro vita e probabilmente più di una volta, si sono sentite minacciate da un uomo o più, si sono viste rivolgere dei “complimenti” non desiderati, dei fischi per strada, delle toccatine che forse quegli uomini hanno valutato come scherzose, innocenti.
Oggi, 25 novembre, si ricorda la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne: si colorano panchine di rosso, si scrivono frasi di rispetto come “le donne non si toccano neanche con un fiore”. I social e la tv si riempiono di simboli di sostegno, simboli fini a sé stessi perché poi, effettivamente, cosa si fa per risolvere questa piaga sociale?
Chi non è di sicuro innocente, in questa storia, è il nostro Paese. Un Paese che mette delle toppe quando le donne vengono picchiate, violentate, uccise.
Un Paese che parla per settimane al telegiornale, nei salotti dei talk, dell’ennesima donna ammazzata dal marito, dal compagno. Un Paese che ci tormenta con frasi come ''lui aveva già mostrato segni di estrema gelosia, lei aveva già denunciato. Poi il tragico epilogo''.
Tragico epilogo. In questi due vocaboli c’è racchiuso proprio il senso di quello che voglio comunicare oggi, con queste parole, che si sommano alle migliaia espresse in occasione di questa ricorrenza. Quando una donna scompare, per più di qualche giorno, tutti pensano al ''tragico epilogo''. Viene naturale pensare che sia stata uccisa, a sangue freddo. Ci si immaginano già i titoli dei giornali: ''ennesimo delitto d’amore'', e lo Stato guarda, si rammarica, dice qualche parola in merito e poi vuoto fino al femminicidio successivo. Forse per questo motivo, 95 donne su 100 tra le intervistate, hanno condiviso con me il loro pensiero secondo cui l’Italia non sia un Paese sicuro per loro: si sentono minacciate camminando per strada la sera, quando scendono dal treno e il sole è già tramontato, quando entrano in bar da sole e gli uomini le fissano.
Da settimane ormai sentiamo parlare del film più discusso dell’anno, che ha riscosso un enorme successo ottenendo 20 milioni di euro di incasso: C’è ancora domani, di Paola Cortellesi.
Un film ambientato negli anni Quaranta, che parla di donne picchiate, violentate, danneggiate psicologicamente dai loro compagni. Donne che hanno fatto la storia del nostro Paese senza saperlo, che hanno lottato per consentire un’educazione ai figli e alle figlie scarificando loro stesse, piegandosi al volere del patriarcato. Donne che non avevano modo di scappare perché non esistevano i telefoni donna, i centri antiviolenza, che sono invece oggi una salvezza per tante, purtroppo non per tutte.
Ci tengo in questo senso a ricordare l’immenso lavoro svolto quotidianamente da L’altra metà del cielo – Telefono donna di Merate, un sodalizio importantissimo per il nostro territorio composto da decine di donne che ogni giorno si spendono per salvare le vite di altre, ospitandole in strutture di primo soccorso per salvare da mariti e compagni violenti. Solo poche settimane fa, ricordavamo che da gennaio di questo anno al 1° novembre, le donne che si sono rivolte allo sportello Antiviolenza sono state 149, con una crescita di richieste tra le giovani.
In tutto questo lo Stato osserva, ricorda il 25 novembre, lo fa senza rispetto.
Senza rispetto perché sono sempre le donne che si devono nascondere, che devono scappare, cambiare identità, cambiare vita. Da quando è la vittima che deve trovare un nascondiglio? Perché lo Stato obbliga le donne che si devono proteggere a ''chiudersi in una gabbia'' per salvarsi e lascia libero chi invece spaventa, picchia, violenta? Perché quando una donna trova la forza di denunciare non agisci subito, caro Stato, ma lasci che venga uccisa? Perché permetti che nel nostro Paese avvenga un femminicidio ogni tre giorni?
Siamo ormai troppo abituati a definire un uomo che uccide una donna come un ''mostro che ha avuto un raptus di gelosia''. Ma non è un mostro, è un uomo, e non è un raptus, è l’ambiente nel quale è cresciuto, la cultura nella quale ha potuto sguazzare per anni, quella stessa cultura che permette che le donne abbiano uno stipendio inferiore rispetto agli uomini quando svolgono lo stesso lavoro, quella cultura che difficilmente permette ad una donna di arrivare a ricoprire alte cariche e che quando succede, o si pensa che sia arrivata dov’è perché fin troppo affabile con gli uomini, oppure si continua a definire il ruolo che ricopre con il maschile il. Il maresciallo, il medico, il presidente, il primario. Se andiamo avanti a pensare che questo contorno non sia importante e che la violenza sia un ''raptus'', un caso isolato, un impulso improvviso scollegato da quanto avviene all’interno della società, beh…allora siamo complici.
E questo stigma patriarcale e maschilista è profondo e radicato nelle nostre azioni, nei nostri gesti, nelle nostre parole. Perché una donna deve essere forte ma anche accondiscendente, divertente ma mai sboccata, libera ma attenta alle esigenze della sua famiglia, caparbia ma anche pacata, sensuale e provocante ma mai scostumata. Mentre un uomo, deve essere solo una cosa: un uomo.
Di seguito, alcune delle testimonianze raccolte attraverso la ricerca già citata.
“Quando passeggio, faccio commissioni, tendo a controllare a chi mi avvicino, cosa faccio e quando. Cerco di non fare nulla per attirare l’attenzione, in special modo quando è buio”.
“Girare da sole è come avere un bersaglio sulla schiena. La cultura maschilista presente nella nostra società tende a considerare le donne come oggetti privi di diritti e di fatto ne impedisce la realizzazione come cittadine”.
“La violenza verbale, il fischio per strada, sono diventati normalità. Ho sempre più paura che il commento spiacevole possa trasformarsi in qualcosa di peggiore. La sera, da sola, evito di uscire di casa”.
“Gli uomini commentano quando non è necessario, se sei in giro da sola spesso ti senti inseguita”.
Se sei vittima di violenza puoi contattare il numero gratuito 1522, attivo tutti i giorni 24 ore su 24. Per agire in modo silenzioso, puoi chattare con gli operatori scaricando l’app “1522 Anti Violenza e Stalking”.
In alternativa puoi metterti in contatto con L’altra metà del cielo – Telefono donna di Merate al numero 039 9900678 o recarti agli sportelli di accoglienza in Via Sant'Ambrogio, 17 - 23807 Merate (LC) a questi orari: sportello di accoglienza il lunedì dalle 16.00 alle 18.00, sportello stalking il sabato dalle 9.00 alle 12.00.
Non sei sola. Non hai colpe.
Susanna Linda Fumagalli