Per quelli che attendono e per i ragazzi che vogliono dire la loro senza essere manganellati
Estragone sta aspettando che Godot arrivi all’appuntamento fissato il giorno prima, nell’attesa continua a toccare, guardare le sue scarpe e la pianta ormai svilita.
L’attesa è sempre snervante, racchiude in sé qualcosa di oscuro, imprevedibile. È quello che succede in un corridoio di un ospedale quando si attende l’esito di un esame sanitario pesante. L’attesa è stancante e sfibrante. In quello spazio di tempo una valanga di pensieri, emozioni corrono lungo il corpo: ti guardi le scarpe, la camicia, la giacca, l’orologio, le luci infernali che si riflettono, oppure togli dalla tasca lo smartphone per ammazzare l’imprevisto. La pressione arteriosa ti sale di più se devi fare una visita cardiologica. È il paradosso della vita, al posto di stare rilassato il sistema neurovegetativo ti frega: attendere è mostruosamente una condizione disturbante.
Attendere di essere liberati dopo una lunga detenzione involontaria come per gli israeliani è angosciante. Attendere che altri decidano della tua vita come in Palestina è l’incognita esistenziale più straziante che ti possa capitare.
Attendere di raggiungere la riva a cinquanta metri e poi affondare come a Curto è il segno di una grande maledizione umana. Attendere i soccorsi che non arrivano, capisci che la vita ti sfugge e senti le budella capovolgersi, rigirarsi.
Attendere di ritornare a casa dopo due anni di guerra e vedere le case distrutte, le strade divelte, le piante intossicate dalle polveri da sparo, di amianto ti coglie la disperazione, l’insicurezza, il non senso della vita.
Scendere in strada per manifestare dopo avere studiato sui libri di scuola con i professori le vicende umane di questo tempo e in fondo ad una strada ti attende un cordone di polizia armato di scudi, di manganelli con caschi e ti picchia, è frustrante.
Ti viene voglia di chiudere la cartella, buttarla in aria, scappare in un’isola deserta, oppure andare sulla strada con Estragone a guardare le scarpe, annusarle e parlare con Vladimiro del tempo dell’attesa, delle cose che si dovrebbero fare, per poi. sentirti dire che devi fare questo e quest’altro, che sei un ragazzino e non capisci niente. E si lamentano dei giovani che fanno uso di sostanze, che sono degli infantili.
Ma che cosa vogliono costoro?
Aspettando che loro decidano la generazione del nuovo millennio è condannata a combattere, a migrare, a camminare senza scarpe nei deserti, nei boschi, a essere rinchiusa in centri che evocano campi di contenzione.
E poi ci si domanda come mai c’è incertezza, insicurezza, paura del futuro, senso di vuoto. Non servono schiere di psicoterapeuti per rimettere in sesto la situazione. A questa generazione va dato il diritto di cittadinanza, di appartenenza, di studio, lavoro e di manifestare il dissenso qualunque esso sia.
Ma che cosa vogliono costoro?
Vogliono che la generazione del nuovo millennio continui a tenere la testa piegata solo sulla protesi del cellulare per dire poi che sono dipendenti, passivi e disinteressati?
Che la gente continui a non votare (48,8% non votanti) come ci conferma l’ultimo dato di affluenza del voto regionale sardo (52,4% votanti) meno del duemila diciannove?
Che cosa vogliono costoro?
Lucky, con il capello in testa, legato al collo con una corda da Pozzo, in attesa di Godot, sta sproloquiando un monologo incomprensibile sul senso della vita. Pura alienazione.
È questo che vogliono?
L’attesa è sempre snervante, racchiude in sé qualcosa di oscuro, imprevedibile. È quello che succede in un corridoio di un ospedale quando si attende l’esito di un esame sanitario pesante. L’attesa è stancante e sfibrante. In quello spazio di tempo una valanga di pensieri, emozioni corrono lungo il corpo: ti guardi le scarpe, la camicia, la giacca, l’orologio, le luci infernali che si riflettono, oppure togli dalla tasca lo smartphone per ammazzare l’imprevisto. La pressione arteriosa ti sale di più se devi fare una visita cardiologica. È il paradosso della vita, al posto di stare rilassato il sistema neurovegetativo ti frega: attendere è mostruosamente una condizione disturbante.
Attendere di essere liberati dopo una lunga detenzione involontaria come per gli israeliani è angosciante. Attendere che altri decidano della tua vita come in Palestina è l’incognita esistenziale più straziante che ti possa capitare.
Attendere di raggiungere la riva a cinquanta metri e poi affondare come a Curto è il segno di una grande maledizione umana. Attendere i soccorsi che non arrivano, capisci che la vita ti sfugge e senti le budella capovolgersi, rigirarsi.
Attendere di ritornare a casa dopo due anni di guerra e vedere le case distrutte, le strade divelte, le piante intossicate dalle polveri da sparo, di amianto ti coglie la disperazione, l’insicurezza, il non senso della vita.
Scendere in strada per manifestare dopo avere studiato sui libri di scuola con i professori le vicende umane di questo tempo e in fondo ad una strada ti attende un cordone di polizia armato di scudi, di manganelli con caschi e ti picchia, è frustrante.
Ti viene voglia di chiudere la cartella, buttarla in aria, scappare in un’isola deserta, oppure andare sulla strada con Estragone a guardare le scarpe, annusarle e parlare con Vladimiro del tempo dell’attesa, delle cose che si dovrebbero fare, per poi. sentirti dire che devi fare questo e quest’altro, che sei un ragazzino e non capisci niente. E si lamentano dei giovani che fanno uso di sostanze, che sono degli infantili.
Ma che cosa vogliono costoro?
Aspettando che loro decidano la generazione del nuovo millennio è condannata a combattere, a migrare, a camminare senza scarpe nei deserti, nei boschi, a essere rinchiusa in centri che evocano campi di contenzione.
E poi ci si domanda come mai c’è incertezza, insicurezza, paura del futuro, senso di vuoto. Non servono schiere di psicoterapeuti per rimettere in sesto la situazione. A questa generazione va dato il diritto di cittadinanza, di appartenenza, di studio, lavoro e di manifestare il dissenso qualunque esso sia.
Ma che cosa vogliono costoro?
Vogliono che la generazione del nuovo millennio continui a tenere la testa piegata solo sulla protesi del cellulare per dire poi che sono dipendenti, passivi e disinteressati?
Che la gente continui a non votare (48,8% non votanti) come ci conferma l’ultimo dato di affluenza del voto regionale sardo (52,4% votanti) meno del duemila diciannove?
Che cosa vogliono costoro?
Lucky, con il capello in testa, legato al collo con una corda da Pozzo, in attesa di Godot, sta sproloquiando un monologo incomprensibile sul senso della vita. Pura alienazione.
È questo che vogliono?
Dr.Enrico Magni