Annone, ''Adamo dove sei?'': Salvatore Borsellino porta la testimonianza del fratello Paolo

Uno scrosciante applauso lo accompagna all’ingresso in sala: raggiunto il tavolo dei relatori, si siede, sistema i suoi fogli e il libro simil ''agenda rossa'', il volume che al termine della serata andrà in breve tempo esaurito. È il suo primo intervento davanti a un pubblico dopo la pandemia e l’emozione è tanta: lo ammette lui stesso, Salvatore Borsellino, fratello del noto magistrato siciliano Paolo, prendendo la parola nella serata di giovedì 24 ottobre nel salone dell’oratorio di Annone Brianza. Si è aperto infatti il ciclo di incontri della rassegna ''Adamo, dove sei?'', proposta da dieci anni a questa parte dalla comunità pastorale San Giovanni Battista.
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Massimiliano Messina e a destra Salvatore Borsellino

Come ha spiegato il responsabile, il parroco di Oggiono don Maurizio Mottadelli si tratta di serate a carattere culturale e di riflessione sull’uomo e la sua presenza nel mondo. Il tema scelto quest’anno è il quinto comandamento per riflettere sulle violenze e devastazioni che attanagliano questo mondo: ''Abbiamo invitato persone che ci aiutano a riflettere sul valore della vita e sul perché i popoli uccidono''.
Moderati da Enrico Viganò, gli ospiti sono stati due: accanto a Borsellino, era presente Massimiliano Messina, il cronista di Telesei e Mediaset arrivato per primo a documentare la strage con le immagini che hanno poi fatto il giro del globo e sono state mostrate durante la serata. 
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Toccante la testimonianza di Salvatore Borsellino che, in un intervento fiume, ha tratteggiato il fratello Paolo raccontandone le doti umane, prima ancora delle riconosciute qualità professionali che hanno accompagnato il suo nome nella lotta alla mafia. Una scelta di vita per la quale il giudice non si risparmiò, nemmeno dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992 in cui venne ucciso il collega e amico Giovanni Falcone, quando tutti avevano la certezza – compreso lui stesso – che la sua vita avrebbe avuto i giorni contati. Trascorsero 57 giorni: erano le 16.58 del 19 luglio 1992 e un nuovo attentato scosse Palermo. Accadde in via d’Amelio, là dove, con la figlia Rita, risiedeva Maria Pia Lepanto, vedova Borsellino. Paolo quel giorno si stava recando dalla madre per accompagnarla a una visita cardiologica: la telefonata fu intercettata e una Fiat 126, imbottita di tritolo la sera prima, venne parcheggiata in via d’Amelio e fatta esplodere al momento dell’arrivo del magistrato. Insieme a Borsellino persero la vita cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
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Gli ospiti con il parroco don Maurizio e i sindaci Pirovano, Marsigli e Narciso

Salvatore, quel giorno fatale, non era nella sua terra: era a Milano, dove si era trasferito dopo gli studi e abitava insieme alla famiglia. Ingegnere elettronico, il pomeriggio del 19 luglio 1992 stava lavorando a uno dei primi computer arrivati in Italia. La moglie si precipitò nel suo studio per comunicargli un grave attentato a Palermo: ''Non avevo bisogno di correre di là: da 56 giorni, tutti sapevamo che sarebbe toccato a Paolo. Lo sapeva anche lui, che non ha accettato di fuggire''. Nell’ultima chiamata tra loro, tre giorni prima della strage, Salvatore aveva invitato il fratello ad allontanarsi dal capoluogo siciliano, divenuto ormai troppo pericoloso per la sua vita. Ottenne per l’ennesima volta un diniego: ''Non accetterò mai di fuggire, presterò fede fino all’ultimo al giuramento fatto allo Stato'' le parole di Paolo.
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A destra don Maurizio Mottadelli

Per Salvatore, che dalla scomparsa del fratello si dedica attivamente alla sensibilizzazione sui temi del contrasto alla criminalità organizzata, del malgoverno e delle collusioni tra politica, poteri occulti e mafia (trattativa Stato-mafia), quella di via D’Amelio è stata una strage di Stato. ''Pezzi deviati dello Stato non solo non hanno protetto abbastanza Paolo ma hanno contribuito alla sua uccisione'' ha detto il fratello. ''Quelle parole di Paolo, quando mi disse di non voler fuggire, le sento ancora come un rimprovero per me, che me ne sono andato perché in Sicilia non avrei avuto un avvenire. Quando sono venuto ad abitare qui, per anni, ho creduto di essermi lasciato tutto alle spalle. Oggi sento questo senso di colpa perché credevo che non fosse più affar mio, che ero lontano dalla mafia ma mi sbagliavo. La mafia non è soltanto in Sicilia: qui al Nord è presente e in una forma ancora più pericolosa. Non si vede ma c’è, ha cambiato molti aspetti, si evolve in continuazione. Oggi la mafia è infiltrazione nelle amministrazioni pubbliche, accaparramento appalti, gestione dei voti''. 
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Alla ricerca della verità sulla strage, che Salvatore reclama da subito dopo la perdita del fratello maggiore, si uniscono tante persone e si arriva alla fondazione del movimento delle Agende Rosse. Il nome fa riferimento al taccuino sul quale Paolo Borsellino scriveva appunti personali, supposizioni e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. L’agenda sparì dalla borsa di cuoio del magistrato che quel pomeriggio di luglio era posta sul sedile posteriore dell'auto e non venne più ritrovata.
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Al microfono Enrico Viganò

''Arrivai a Palermo in tarda notte e non si vedeva più nulla: era buio. Mi raccontarono gli altri quello che c’era. C’era l’inferno” ricorda Salvatore, ripercorrendo il vissuto della madre. La donna, pensando ci fosse stata un’esplosione in cucina – “gli scherzi che a volte fa la mente'' ha commentato amaro Salvatore – cercò di scappare da casa. Sul pianerottolo perse le pantofole e scese le scale piene di vetri: era scalza e raggiunse il pianterreno senza ferite. Uscendo sul portone, dovette passare accanto al corpo del figlio, amputato degli arti inferiori e di un braccio. Un orrore troppo grande da vedere, per una madre e che Salvatore ha ricostruito a proprio modo, raccontandolo con la voce che si stringeva in gola: ''Mia madre dice di non averlo visto: non può non averlo visto. Penso che quello che restava di mio fratello abbia preso nostra madre in braccio e l’abbia portata giù per le scale facendola arrivare a terra senza un taglio e che quando è passata vicino al suo corpo le abbia chiuso gli occhi con le mani per non farle vedere quello che la sua mente aveva dovuto sopportare''.
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La donna, all’indomani della strage, radunò i figli chiedendo loro di continuare a parlare di Paolo, l’unico modo per non farlo morire. ''Da trent’anni cerco di obbedire a mia madre. Il sogno di Paolo era così grande che non potrà mai morire. Mio fratello ha sacrificato la sua vita per amore: poteva fuggire, scappare ma non l’ha fatto. Sapeva di dover morire ed è rimasto al suo posto'' ha affermato il fratello.
Il giudice, a qualche giorno dalla morte, confidò alla madre che stava cercando di allontanarsi affettivamente dai suoi figli: non li coccolava più per farli abituare alla sua assenza. Era pienamente consapevole di quello che sarebbe accaduto, ma non si è sottratto. 
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''Paolo ha lasciato una lettera, che abbiamo trovato il giorno dopo la strage sul suo tavolo. Rispondeva ai ragazzi del liceo di Padova presso cui sarebbe dovuto andare. I ragazzi gli fecero dieci domande ma arrivò solo fino al quattro che non ha una risposta. Nel suo ultimo giorno di vita, riesce a dire di essere ottimista e manifestare fiducia nei giovani'' ha aggiunto l'ospite. 
Affaticato dagli anni, ma lucido narratore, Salvatore Borsellino ha tenuto il suo intervento in piedi, conservando la grinta di chi continua a dedicare la vita a denunciare e reclamare verità: ''Sono convinto che verità e giustizia non l’avrò mai. Non la vedrò nei tribunali. Vedo allontanarsi la possibilità di ricevere giustizia''. 
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Il tragico e commovente racconto è proseguito con la testimonianza del cronista Massimiliano Messina che in quegli anni documentò più di una trentina di omicidi di mafia, ''anche di ragazzi che la sera prima erano con me in pizzeria''. Al momento dell’arrivo sul luogo della strage di Capaci, ''fummo costretti a fermarci perché l’autostrada si interrompeva all’improvviso: non c’era più asfalto, solo detriti. I miei occhi videro immagini che tutt’ora sono impressi nella mia mente: brandelli di corpi umani erano dappertutto. Avevo lacrime agli occhi. Quando arrivai a casa, ero esausto, un uomo distrutto''.
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Passarono due mesi: ''Dopo l’uccisione di Falcone, iniziammo a stare in pensiero per Borsellino e speravamo che lui si decidesse a fare quel passo indietro che gli avrebbe salvato la vita. Ogni giorno che passava ci faceva sperare''. Ha poi descritto i momenti vissuti dopo la strage di via d’Amelio: ''Si camminava su resti umani. La cosa che più mi colpì di quella strage fu la rivolta della gente. Tutto il quartiere scese in strada: è qualcosa che non dimenticherò mai''.
Dopo quegli anni, che si facevano sempre più pesanti oltre che carichi di minacce, Messina decise di lasciare la carriera e di cambiare vita: si trasferì prima a Torino e, dopo poco, a Como, dove oggi vive e lavora come infermiere presso l’ospedale Sant’Anna. 
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All’incontro erano presenti i sindaci dei tre comuni della pastorale, Luca Marsigli per Annone Brianza, Chiara Narciso per Oggiono ed Elena Pirovano per Ello. Il primo ha ringraziato per le testimonianze, aggiungendo un pensiero sull’uomo magistrato che, insieme a Falcone, ''ha dato una svolta all’attività giudiziaria italiana'' in riferimento al maxiprocesso di Palermo. ''Falcone disse che ''la mafia è un fenomeno umano'': questi due magistrati ci hanno ricordato l’esistenza del principio di legalità''.
Nella lettera in risposta agli studenti di Padova, nel giorno della sua morte, Paolo Borsellino nutriva fiducia nell’avvenire e nei giovani, come scrisse: ''Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e non, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant'anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta''.
M.Mau.
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