Annone: la testimonianza di tre migranti, fuggiti da una realtà intrisa di violenza e dolore

Un incontro scomodo, intenso e drammatico. Per il ciclo ''Adamo dove sei? Non uccidere'' promosso dalla Comunità Pastorale oggionese, le testimonianze di Carlos, Yusuphe e Umar hanno condotto i presenti attraverso El Salvador, il Pakistan ed il Gambia, le difficoltà di queste terre e il viaggio disperato di chi si augura, per sé stesso e la sua famiglia, un futuro più degno. 
Ieri sera, presso il teatro di Annone, il parroco don Maurizio Mottadelli ha voluto dare voce ad alcuni migranti giunti in Italia dopo viaggi segnati dal dolore, oggi stabilitisi nei comuni dell’oggionese.
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''Riflettiamo su cosa significhi davvero uccidere. Papa Francesco ci ricorda che il Mediterraneo è diventato un enorme cimitero. Ma non servono armi per togliere la vita: abbiamo alzato muri, chiuso confini, costretto persone a dormire in strada senza un aiuto'' ha detto il sacerdote in apertura di incontro. ''Anche il rifiuto è una condanna a morte, un’esclusione che spegne ogni speranza. Questo tema è complesso, delicato, ma stasera siamo qui per un motivo diverso: per tendere una mano, per guardare negli occhi chi ha vissuto questi drammi e riconoscere che ora è parte della nostra comunità. Queste non sono solo storie di dolore, sono storie di vita che ci riguardano tutti'' ha aggiunto, invitando i presenti a spingersi oltre preconcetti e pregiudizi, ascoltando l’Altro con sincerità. 
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Il parroco don Maurizio Mottadelli

Carlos Rodriguez, residente a Oggiono, ha raccontato la sua storia, segnata dalla violenza e dalla lotta per la verità. "Sono arrivato in Italia otto anni fa, la mia famiglia è qui da sette. Ho fatto il giornalista per quasi trent’anni nel mio paese, iniziando giovanissimo, in un El Salvador piegato dalla guerra civile". Il testimone ha ricordato come, già ai tempi della scuola media, il regime militare prelevasse i ragazzi per il servizio militare forzato e perseguitasse gli insegnanti dissidenti. "A tredici anni ci siamo battuti per continuare a studiare e la nostra lotta è arrivata fino ai giornali del Nord Europa. Da lì ho capito che volevo fare il giornalista per raccontare la verità". Dopo la fine della guerra civile, Carlos ha proseguito il suo lavoro, documentando la violenza crescente legata al narcotraffico: "Facevo inchieste sulle bande criminali e nel 2015 è uscita una lista con i nomi di giornalisti da eliminare. Tre miei colleghi sono stati assassinati. Ho quattro figli, non potevo rischiare oltre. Siamo fuggiti in Nicaragua, cambiando casa quindici volte in due anni. Mia moglie era esausta. Non volevo lasciare il mio paese, ma non avevo scelta". 
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Carlos Rodriguez

Dopo un lungo viaggio, è arrivato a Bergamo, ospite di un amico. "L’inizio è stato durissimo, lontano dalla mia famiglia. Ma passo dopo passo ho ricostruito la mia vita e finalmente sono riuscito a riunirmi con loro". Oggi lavora e il suo quinto figlio è nato in Italia. "Tutto quello che avevamo è rimasto laggiù, ma mio figlio mi dice sempre: la casa è dove sta la famiglia".
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Yusuphe Djatta ha poi raccontato il suo drammatico viaggio dal Gambia durato 3 anni: "Sono arrivato in Italia l’8 gennaio 2015. Il mio percorso è stato lungo e difficile. In Gambia accompagnavo mio cugino, un politico d’opposizione, a diversi incontri. Finché un giorno mi hanno arrestato. Quando sono uscito, ho capito che dovevo fuggire da quella realtà". Così è iniziata la sua odissea attraverso il deserto: "Abbiamo viaggiato per giorni senza acqua né cibo, mangiando solo zucchero. Alla frontiera tra Nigeria e Libia è iniziato l’inferno. Ci hanno messi in fila e ci hanno bastonati uno dopo l’altro. Poi ci hanno caricati su un pick-up e portati in prigione".
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Yusuphe Djatta

A quel punto, i trafficanti hanno iniziato le estorsioni: "Chi aveva parenti che potevano pagare veniva liberato. Un mio concittadino ha pagato per me, ma poi mi ha chiesto ancora più soldi. Ho visto gente accoltellata a sangue freddo. Un mio compagno di viaggio, appena diciottenne, è stato pugnalato. L’ho preso in spalla e ho camminato mezz’ora per portarlo in ospedale, ma non ce l’ha fatta. È morto tra le mie braccia".
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Dopo mesi di lavori forzati, Yusuphe è riuscito ad arrivare a Tripoli, dove ha trovato lavoro presso un maresciallo che lo ha fatto uscire di prigione, in cambio di lavori presso la sua abitazione. "Abbiamo lavorato sei mesi, senza mai essere pagati. Provenendo dal Gambia lì mi sarebbero spettati solo anni di intenso sfruttamento. Sono riuscito a contattare delle persone che si occupavano della tratta in mare per l’Italia". Il viaggio in mare è stato disperato: "Il mare era agitato, il motore si è rotto, siamo rimasti alla deriva tre giorni. Abbiamo chiamato la guardia costiera italiana e finalmente ci hanno soccorsi. Il 15 gennaio 2015 sono arrivato a Lampedusa e poi sono stato trasferito a Lecco. Oggi ho un lavoro, una famiglia, sono cittadino italiano. Ma il dolore di quello che ho vissuto non mi abbandona. Sono grato all’Italia per questa possibilità di vita''. 
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Umar Shan

Umar Shan, pakistano in servizio presso l’Associazione Comunità Il Gabbiano ODV, ha parlato del ruolo fondamentale della mediazione culturale: "Non siamo solo traduttori, ma facilitatori di un percorso di cittadinanza. Anche io sono qui grazie a mio padre, che ha fatto la rotta balcanica dalla Grecia. In Pakistan la situazione è peggiorata: la sanità non funziona, non hai diritti, se hai un incidente devi pagare prima di essere curato, se sei incinta devi pagare molti soldi per essere assistita. Senza soldi non sei nessuno, eppure gli stipendi sono bassissimi. Non esistono tutele per i lavoratori, non c’è nulla di scritto, lavori ma puoi essere non pagato, sottopagato, lasciato a casa da un momento all’altro senza alcuna tutela". Ha sottolineato quanto sia difficile integrarsi: "Non è solo imparare la lingua, è ricostruire una vita. Qui ho avuto l’opportunità di studiare e lavorare. Mi sto laureando online. Sono grato per questa possibilità". 
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Cecilia Grillo

''Cosa vuoi fare da grande?'', è la domanda che spesso ci sentiamo rivolgere quando siamo piccoli, e davanti a noi abbiamo un ventaglio di ipotesi pressoché illimitate. Per qualcuno invece la scelta non è chi essere, o chi diventare, ma come sopravvivere.
Celeste Grillo, responsabile del progetto di accoglienza dell’Associazione Il Gabbiano ODV, ha voluto così smontare il concetto di ''migrante economico", di cui spesso si sente parlare: "Si usa questa etichetta per minimizzare la realtà. Essere costretti a lasciare il proprio paese per mancanza di cure mediche, di istruzione, di sicurezza è un dramma, si stratta di sopravvivenza negli stessi termini di chi migra chiedendo rifugio politico. Fin da piccoli ci insegnano a sognare un futuro, ma per molti migranti non si tratta di scegliere cosa diventare, ma solo di sopravvivere giorno per giorno".
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Don Maurizio Mottadelli ha così concluso con un forte messaggio: "Quando si parla di migranti, si pensa a criminalità e insicurezza. Ma ascoltando queste storie, nessuno può avere paura. Il vero pericolo è il rifiuto dell’altro. Dobbiamo scegliere di vedere non solo le difficoltà, ma anche la bellezza e il valore di queste vite".
Sa.A.
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