La borsa della guerra

C’era una volta la “borsa per l’ospedale”, sempre pronta con biancheria ed effetti personali a partire dal settimo mese di gravidanza, nel caso in cui il bimbo avesse particolare fretta di nascere.
E poi, nato il pargolo, la “borsa del culetto”: pannollini, traversina, body di ricambio, olio contro le irritazioni. Volendo ci stava anche il biberon, che non si sapeva mai.
Chi lavora viaggiando spesso ha il trolley sempre pronto, talvolta due intercambiabili, che anni di esperienza hanno alleggerito e reso funzionali: George Clooney dava preziosi suggerimenti nel bellissimo e amaro film “Up in the air” (“Tra le nuvole”).
A casa mia c’è uno zaino sempre pronto con corda, imbrago, rinvii, moschettoni, piccozza, per le mie fughe in montagna. C’è la borsa della piscina dei figli, quella della palestra dei grandi, lo zaino per la scuola del giorno dopo.
Chi ha la sacca per il padel, chi per pilates, chi qualche altro passatempo utile o bizzarro che faccia sentire in pace.
In un’intervista recente Hadja Lahbib, Commissaria europea per la preparazione, la gestione delle crisi e l'uguaglianza, ha dichiarato l’opportunità di sostenere gli Stati membri della UE a predisporre una “borsa della resilienza” – ha detto – “in modo che tutti i cittadini siano pronti a resistere, a essere strategicamente autonomi per almeno 72 ore”.
Ormai “resilienza” lo si infila dappertutto, perché “borsa della guerra” suonerebbe troppo male. Cosa va infilato, allora, in questa nuova borsa? Un kit di sopravvivenza con una decina di prodotti essenziali – ha detto ancora la Commissaria – vale a dire acqua, medicinali di base, cibo, documenti, una torcia elettrica, pile di ricambio, addirittura fiammiferi.
“L’imprevisto si prepara”, ha detto al “Mattinale Europeo” la Commissaria: “La preparazione non è solo una responsabilità nazionale, ma uno sforzo collettivo europeo”.
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Voglio pensare a una traduzione pigra, ma mi permetto di suggerire che “ci si prepara all’imprevisto”, non “si prepara l’imprevisto”. Ho invece l’impressione che ci si stia tutti eccitando – nella retorica, nelle decisioni politiche, nella pigrizia intellettuale – in una profezia di quelle che poi si autoavverano e che l’Europa si stia davvero sforzando a preparare una crisi, non a prepararsi contro la crisi.
C’è un principio che tutti gli scrittori conoscono (e che anche chi si occupa di comunicazione dovrebbe aver sentito), che si chiama della “pistola di Čechov”, e riprende una massima del famoso drammaturgo russo (quando la Russia scriveva di drammi, non li creava), secondo la quale: “Se nel primo atto compare in scena una pistola appesa a un muro, prima della fine della rappresentazione sparerà.”
Far comparire nella comunicazione pubblica e istituzionale parole come quelle che si sentono nelle ultime settimane o è un’imprudenza da pistola o è una fascinazione segretamente bellicosa da pistoleri.
Dal mio piccolo punto di osservazione mi pare più la seconda.
Era il 1945 quando Albert Einstein rifletté così: “Non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale, ma so che la quarta si farà con pietre e bastoni”.
È il 2025 quando la UE ci invita a fare scorte di fiammiferi: sono trascorsi ottant’anni di pace (apparente) e li abbiamo buttati via.
Avrei altre considerazioni da fare ma devo lasciarvi: da quando ho letto il consiglio della Commissione non sto facendo che ammucchiare scatoloni con generi di prima sopravvivenza e devo affrettarmi a stoccarli in cantina. Che non è un bunker antiatomico ma non si sa mai. 
Stefano Motta
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