Molteno: Manuel Bragonzi, dai boschi del Cile a Milano, racconta la sua adozione

Una serata densa di emozioni, commozione e silenzi. In sala non si muoveva foglia mentre dal palco giungeva una voce dolce, anche quando si parlava di momenti negativi. Le lunghe pause di sospensione, generate da una coinvolgimento difficilmente contenibile, rendevano ancora più sentito il racconto. Il salone dell’oratorio di Molteno, nella serata di venerdì 19 novembre, grazie all’associazione “Raccontiamo l’adozione”, ha ospitato Manuel Bragonzi, 45 anni, nato in Cile in un villaggio contadino a 300 km a sud di Santiago e sottoposto ad angherie e violenze dalle quali, a soli cinque anni, è scappato, rifugiandosi in un bosco che per due anni e mezzo è stato la sua casa. Madre Natura: per lui lo è stata veramente, una madre che gli ha fatto scoprire la bellezza e permesso, così piccolo, di affrontare un viaggio di auto consapevolezza, per riuscire a interiorizzare quanto aveva vissuto.

Si ricorda tutto di quegli anni Manuel, a partire dal suo primo ricordo: l’uccisione della madre davanti ai suoi occhi per mano di un vecchietto che poi avrebbe scoperto essere il nonno, che ne ha in seguito preso la custodia, sottoponendolo però a continue e incessanti violenze. “Mi picchiava con la cintura, mi chiudeva in casa, mi imprigionava ma lo facevano anche i compagni di villaggio: ero maltrattato da tutti. Ero non considerato e, se considerato, picchiato”. Stanco di queste violenze, Manuel decise di dare fuoco alla casa del nonno, che prese poi tutto il villaggio. Lui, intanto, iniziò a correre, correre nel bosco.

Da sinistra la vice presidente dell’associazione Raccontiamo l’adozione Simona Bellani,
la presidente Roberta Bosisio, Manuel Bragonzi, la psicologa Sara Donadoni e Tiziana Cattaneo

 

“A cinque anni mi chiedevo chi ero. Volevo essere come tutte le cose che vedevo nel bosco: un albero, un ruscello, un uccello - prosegue - Camminavo nel bosco con lo sguardo attento e mi facevo affascinare da quella bellezza. Volevo che entrasse tutto dentro di me: avevo bisogno di sperimentare altro ed è stato bello perché fino ad allora avevo conosciuto il male. A parte la sopravvivenza mi interessava salvare me stesso. Rimasi da solo nel bosco per tre anni fino a quando capii che ero parte di quel bosco. Mi sono sentito un tutt’uno con quello che vedevo, sentivo. Questa percezione mi ha sconvolto la mente e lì ho capito di essere bello. Questo mi ha fatto accettare come ogni cosa che avevo vissuto fino a quel momento. La morte di mia madre ha avuto un senso da quel momento: non ha tolto il dolore ma gli dato significato”.

Riusciamo a immaginare a fatica a un bambino, completamente solo nel bosco, alla ricerca di cibo e senza paure. Per Manuel non è stata una scelta così singolare perché, ha detto scherzando, “siamo troppo civilizzati”: “Mangiavo le more, rubavo nei campi le mele, le angurie, ma il cibo non era la cosa principale per me. Se trovavo qualcosa mangiavo, altrimenti no. Per me il cibo non è stato e ancora non è così importante. L’unica paura riguardava la leggenda che parlava dei diavoli che di notte, nascosti dietro i cespugli, prendevano le persone che non rientravano al villaggio. Quando sono scappato era notte ed era buio completo - nei villaggi non c’era l’elettricità - vedevo le sagome dei cespugli e avevo molta paura. Quando sono arrivato nel bosco, ho visto che i diavoli non sono arrivati e da quel momento non ho più avuto paura. Quando ho visto la televisione per la prima volta dai miei genitori, sono andato dietro per vedere se dietro c’era qualcuno, come un primitivo”.

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Manuel venne trovato nel bosco da due Carabinieri che si erano messi sulle sue tracce, allertati dal nonno, motivo per il quale ancora oggi, a più di 40 anni di distanza, non riesce a provare odio per lui: “Il nonno da bambino era l’unico legame che avevo, l’unica appartenenza. Nonostante quello che mi faceva ogni giorno, era l’unico legame con un essere umano: gli volevo bene. Non l’ho odiato e oggi io sono qui grazie a quella telefonata che fece ai Carabinieri. Lui ha fatto una chiamata che mi ha salvato la vita”. Parole che meritano una grande riflessione.

Manuel è stato condotto in un orfanotrofio dove è rimasto sei mesi, fino a quella sera in cui un sogno premonitore lo avvertì che due persone sarebbero arrivate a prenderlo. Al risveglio, si pulì e vestì di tutto punto e, convocato nello studio della madre superiora, conobbe i suoi genitori, che erano molto tesi, occhi sgranati e mani tremanti. C’era infatti la possibilità che il piccolo dicesse no, non voglio andare via da qui insieme a due persone sconosciute. Non è stato il caso di Manuel, che ha detto sì e ha visto gli occhi brillare in quei genitori, subito pronto a riempirlo di baci, abbracci e carezze. Una bellezza che lui non aveva mai conosciuto. “Da quel momento mi sono riconosciuto figlio all’istante: non c’è stato momento di esitazione. Da quel giorno sono diventato figlio” aggiunge. Poi, un altro momento complicato, in cui le emozioni si sovrapponevano: seduto sulle gambe della mamma sul volo che lo avrebbe portato in Italia, guardava dall’alto la sua terra, che gli aveva dato i natali, l’unica che il quel momento conosceva e che aveva “conquistato con il sangue”. Allo stesso tempo, si faceva chiaro che si stava indirizzando verso una nuova bellezza, quella dell’affetto di una famiglia che lo avrebbe coccolato.

Nel 1985 è arrivato a Milano e dopo nemmeno quindici giorni si trovava già alla scuola primaria, un istituto paritario scelto dai suoi genitori: da quel momento, scontrandosi con la realtà che vedeva di fronte a lui, fatta di bambini piagnucolosi e ben vestiti, aveva scelto di indossare una maschera. Da quel momento, ha scelto di farsi chiamare con il suo secondo nome, Antonio, mantenuto fino alla scrittura del primo libro: “Il primo giorno indossavo pantaloni scozzesi, una camicia bianca e un maglione blu che sporcai in breve tempo. I miei coetanei mi sembravano alieni, strani, come se vivessero in una realtà parallela senza capire quello che stavano vivendo. Erano bambini che passeggiavano sulla linea della vita, mentre io ero diverso, non fisicamente ma nel modo di vivere la vita. Se avessi continuato a essere me stesso, non avrei potuto stare vicino a loro e mi sembrava di nascondere una parte di me”.

Con la pubblicazione de “Il bambino invisibile”, la sua biografia, Antonio è tornato Manuel. "Quell’Antonio era la maschera del milanese che ho tenuto fino a questo momento, avvenuto mentre ero in una situazione di difficoltà. Ero diventato cinico: non credevo più nell’amicizia, nell’amore dopo la fine del rapporto con la moglie e qui è arrivata l’occasione di scrivere il libro. Grazie ad esso, ho ripercorso la mia vita. Ogni notte mi appuntavo i ricordi: non è stato difficile ricordare ma capire che io non ero più quel bambino. Era come se io avessi tradito me stesso: è stato difficile riuscire a fare i conti con questo. Terminata l’ultima parola scritta, ho buttato via Antonio. Mi sono fatto chiamare di nuovo Manuel. È stato bello riscoprisi uomo, tornando bambini”.

A proposito dell’adozione, Manuel ha detto: “Per me è avvenuta nel 1985, poi è finita: per il resto ho vissuto. Non ho fatto un’esperienza da adottivo, ma da figlio”.
La serata si è protratta fin oltre le 23.30 con Manuel che ha sempre risposto alle domande, alle curiosità, svelando una parte di se stesso al pubblico. Ha poi concluso l’incontro leggendo un pensiero, non presente nel suo ultimo libro “Per sempre”, per spiegare cosa significa per lui l’adozione.
M.Mau.
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