Casatenovo: 'I voli della morte' nel libro di Stefano Motta, presentato ai soci di UTE

Nel diritto anglosassone, e in tutte le costituzioni democratiche, l'Habeas corpus, letteralmente "si abbia il corpo", è il principio che tutela l'inviolabilità personale e il diritto di ciascun individuo di possedere il proprio corpo.
Proprio Habeas corpus è il titolo di un romanzo pubblicato per la prima volta nel febbraio 2021 e che porta il nome del professor Stefano Motta, scrittore e saggista originario di Desio, già autore dei romanzi "Lale", "Le armi dei vinti" e "Di vento forte" e delle raccolte di racconti "Latte e Ghiaccio" e "Mascarpone e altre storie". Ospite del quinto incontro del ciclo organizzato da Università per Tutte le Età (UTE), l'associazione per la promozione sociale attiva sul territorio casatese guidata da Samuele Baio, il professore ha esposto, nel pomeriggio di giovedì 10 marzo, la sua opera ai presenti radunati nella Casa del Giovane in Oratorio a Casatenovo.

Stefano Motta

"L'argomento di cui tratta questo incontro per certi versi stride e dà fastidio con la cronaca di oggi, ma per certi altri ci ricorda che non è mai sbagliato parlare di guerra, perché se aveva ragione Cicerone che la storia è maestra di vita, non c'è altro modo per educarci alla pace se non quello di decidere di mettere i piedi nel fango e renderci conto di quanto è stata brutta" ha esordito il professore, alludendo al recente attacco militare all'Ucraina da parte della Russia. "Non so chi di voi sia pigro, io lo sono e credo che lo siamo un po' tutti. Una sera, tre estati fa, ero seduto sul divano, il telecomando era dall'altra parte della stanza e non mi andava di alzarmi e prenderlo. Non avevo il telefono vicino, erano forse le 23 e su La7 andava uno di quei programmi interessanti che fanno sempre dopo una certa ora, perché prima fanno altro. Era, mi ricordo, una trasmissione di Andrea Purgatori, io inizialmente volevo cambiare canale, ma non avevo voglia di alzarmi. Così comincio a guardarlo e, dopo un po', mi accorgo che io, le cose di cui stava parlando, non le conoscevo. E questo mi ha dato fastidio, nel senso che Samuele è sempre molto lusinghiero nei miei confronti, ma comunque non sono completamente un idiota, e rendermi conto del fatto che non sapessi nulla di ciò che stavo guardando mi ha dato fastidio. Di cosa stava parlando il Purgatori? Parlava dei cosiddetti desaparecidos argentini. Così ho iniziato a informarmi, a prendere un po' di libri e a leggere compulsivamente per colmare questo vuoto, che interessava gli anni compresi fra il '76 e la guerra delle Falkland".

Attraverso le parole di un personaggio che non esiste nella connotazione biografica, bensì solo in quella letteraria, il libro racconta infatti con spaventoso realismo proprio questa piaga della storia dell'America latina e, in particolare, dell'Argentina: si tratta, appunto, dei desaparecidos, ovvero un gruppo di persone che, alla fine degli anni '70, accusate di essere dissidenti politici, o semplicemente un pericolo per la dittatura dell'epoca, sparirono misteriosamente. Da qui, allora, Habeas corpus: "non ci importa cosa hanno fatto questi prigionieri, ma si abbia il corpo", "fateceli vedere".
"Intanto che studi e leggi, capita sempre la stessa cosa: la storia dei molti è interessante a livello documentario, perché ti permette di imparare, conoscere la cronologia, le forze in campo e tutto ciò che c'è da sapere su un determinato evento, ma, oltre a quella, c'è sempre la storia dei singoli, la storia della specifica famiglia, della specifica ragazza, della signora matura d'età, del giovane... e sono queste singole storie, agli occhi non di uno storico, ma di uno che di mestiere fa lo scrittore, a essere interessanti" ha proseguito Motta. "Noi possiamo piangere quanto vogliamo perché sono morti sei milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale, ma che siano sei milioni e uno o sei milioni e due non ci fa molta differenza. Se guardiamo Schindler's List, però, noi piangiamo quando vediamo la bambina con il cappottino rosso, perché, appunto, è la singola storia che ci commuove. E infatti, leggendo e informandomi sulla questione, mi sono imbattuto in due storie che hanno catturato la mia attenzione, una delle quali ho dovuto scartare perché non mi dava la possibilità di scrivere, l'altra, invece, ha come protagonista la donna che vedete in copertina".

Quella di cui parlava il professore è la realmente esistita Alice Domon, "Lisette" per gli amici, una suora laica di origine francese. La sua storia è contenuta all'interno di alcune lettere, anch'esse riportate nel libro, che lei inviava alle nipoti e che dopo anni sono finite nelle mani del professor Motta. Alice Domon faceva parte della confraternita delle missioni straniere francesi e insieme alle sue sorelle veniva spedita nei paesi indigenti per evangelizzare e aiutare i poveri. Aveva sempre voluto fare la missionaria e quando la sua Madre superiora la destinò all'Argentina lei ci rimase male, perché il suo obiettivo era di andare in Kenya, in Tanzania, insomma, nei paesi universalmente riconosciuti come poveri e bisognosi. "L'Argentina è un paese ricco!", infatti, è un paese dove nel secondo dopoguerra si rifugiarono e fecero fortuna numerosissimi esuli tedeschi e italiani, un paese che, anche dal punto di vista climatico e delle risorse, si presenta come molto benestante. "In Argentina non ci vado, non hanno bisogno di me, voglio andare altrove" diceva Lisette, contrariata. Ma comunque, obbedendo alla superiora, è partita, e una volta giunta in Argentina ha iniziato a dedicarsi a un istituto di bambini oligofrenici, i bambini con la sindrome di down, e poi si è occupata della pastorale per le ragazze giovani, le prostitute di strada: in tutti i posti, alla fine, c'è bisogno di aiuto.
Attraverso il suo operato, Lisette ha incontrato la storia di alcune madri e donne che negli anni della dittatura militare argentina dal '76 in avanti avevano perso notizie dei loro figli. Il regime militare di Videla e di Massera - ammiraglio della marina -, di matrice naturalmente destrorsa, come tutti i regimi militari cercava non di organizzare il consenso, bensì di eliminare il dissenso, che, in questi casi, arriva sempre dai giovani. "È brutto dire questo in un pubblico che è prevalentemente maturo, ma quando hai 45, 50 anni sei più tendenzialmente conservatore, mentre i giovani sono fortemente innervati di idealismo, soprattutto quelli che frequentano l'università - non voglio essere classista, ma più è alto il tasso di cultura, più è alto il tasso di idealismo" ha commentato il professor Motta. Questi studenti universitari, con idee politiche più vicine alla sinistra, alcuni più progressisti altri più liberali, ma tutti che studiavano scienze politiche, filosofia, giurisprudenza e in generale in quelle facoltà dove il dibattito e il confronto sono molto presenti; questi giovani che convivevano, che avevano un approccio all'amore e alla sessualità un po' più libero di quello che prevedeva il conservatorismo cattolico, e che magari fumavano qualcosa, costituivano, per il regime, forse non dei sovversivi terroristi, ma comunque un pericolo non indifferente, in quanto identificati come potenziali dissidenti politici, nonostante incarnassero semplicemente lo stereotipo del giovane di fine anni '70. Di questi giovani, appunto, dal '76 in avanti si persero le tracce: non dall'oggi al domani, ma secondo un processo graduale, ragazzi e mariti iniziarono a non tornare a casa e a sparire. Le madres e le abuelas, cioè le nonne, quindi, cominciarono ad andare in mezzo alla strada e in prefettura a chiedere notizie dei loro figli.

Notizie che, però, non arrivavano. Anzi, se arrivavano, erano insultanti e provocatorie. "Tua figlia? Ah, quella che è stata vista..? Sarà andata con qualche rivoluzionario! Hai provato a vedere in Amazzonia?" Insomma, venivano addirittura derise. Stanche di non ricevere alcun genere di responso, le madri e le nonne di questi giovani scomparsi iniziarono a sfilare, tutti i giovedì, nella Plaza de Mayo, una delle principali piazze di Buenos Aires, perché - come oggi - c'era una legge che impediva di manifestare stanziando in un punto, ma nulla poteva proibire di girare per strada. Queste donne dunque iniziarono a camminare in tondo indossando sulla testa una sorta di foulard bianco, che simboleggiava i pannolini dei loro bambini, e che sottolineava la loro mancanza e la volontà di protesta. Ancora oggi a Plaza de Mayo ci sono per terra dei simboli che richiamano questa cosa. Lo slogan che accompagnava queste madri, che nel frattempo si organizzarono nel gruppo "Madres de Plaza de Mayo", è "APARICIÓN CON VIDA DE LOS DETENIDOS-DESAPARECIDOS", ovvero "apparizione in vita dei detenuti e degli scomparsi". Tutto ciò che volevano era rivedere i loro figli e mariti, possibilmente vivi: habeas corpus.
Chiaramente non ricevettero lo stesso notizie dal governo, anzi, quest'ultimo iniziò a fare disinformazione e ad additare gli "scomparsi" come terroristi, come comunisti catturati dalle stesse brigate delle quali facevano parte e spediti in Amazzonia. Così, nel Natale del '77, in occasione della giornata internazionale dei diritti umani del gennaio del '78, le Madres decisero di pubblicare un appello a La Nación, il corrispondente argentino di ciò che per noi è il Corriere della sera. "Se non ci sentono per le vie consuete, allora faremo un appello alla stampa". Nonostante in un regime la stampa sia - purtroppo - completamente collusa con il potere, il direttore de La Nación decise di pubblicare l'appello, in cambio di una cospicua somma di denaro, per comprare la pagina. Così venne fatta una colletta, e nel dicembre 1977 comparve su La Nación un appello dal titolo "Sólo pedimos la verdad", "Chiediamo solo la verità", contenente tutti i nomi dei ragazzi e delle ragazze scomparse.

"Dietro a questo appello c'è la storia in cui mi sono imbattuto e che ho cercato di raccontare. Facevano parte di questa associazione, cioè le Madres di Plaza de Mayo, e ne curavano l'aspetto spirituale, due suore: la prima è suor Léonie, la seconda è la nostra Alice Domon, che, dopo essere venuta a conoscenza del gruppo, ne divenne parte integrante. Anzi, Lisette era la tesoriera dell'associazione" ha detto ancora il professor Motta. "Le attività delle Madres, che stavano in quel momento semplicemente raccogliendo denaro per la pagina de La Nación, giunsero all'orecchio del regime militare, il quale non poteva ammettere che l'appello venisse pubblicato. E in realtà non era solo il regime militare argentino a non volerlo: voi sapete che tutti i regimi militari sudamericani succhiavano il latte dalla tetta della madre USA, e nell'ottica delle elezioni presidenziali americane del '78 - elezioni di Jimmy Carter -, era necessario che non ci fossero scandali di alcun tipo. C'è un registrato tra Kissinger, Segretario di Stato degli USA, e il ministro degli esteri argentino, in cui il primo dice: "Se dovete fare qualcosa, fatela prima di Natale, perché poi a gennaio comincia la campagna elettorale e non vogliamo avere le mani in pasta''.

La "storia dei singoli", dunque, concretamente inizia qui. Mentre le Madres raccoglievano i soldi per comprare la pagina de La Nación, la marina militare argentina infiltrò un personaggio all'interno del loro gruppo come agente sotto copertura. Si chiamava "El Rubito", cioè "Il biondino", ed era un ragazzetto - ma comunque tenente di marina - che, fingendo di aver perso il fratello, si offrì di contribuire con dei soldi, raccogliendo però, nel frattempo, i nomi delle Madres dell'associazione e trasmettendoli alla marina militare, la quale organizzò una specie di rapimento per riuscire a prendere il numero maggiore possibile di donne. Il momento migliore per il colpo si rivelò essere proprio la sera dell'8 dicembre, quando le Madres si ritrovarono davanti alla chiesa di Santa Cruz a Buenos Aires per mettere insieme i soldi per l'appello. Riunite tutte per l'appuntamento, come da accordi con la marina, El Rubito finse di essersi dimenticato i soldi a casa, si avvicinò a suor Lisette e le diede un bacio: quello fu il segnale per entrare, i commandos argentini fecero irruzione e catturano le Madres guidando delle Ford Falcon. "Se noi pensiamo ai desaparecidos argentini associamo immediatamente due mezzi di trasporto: uno lo vedremo più avanti, l'altro sono queste Ford Falcon, le macchine più diffuse in tutta America, in questo caso verdi, senza insegne, e guidate da militari con un ordine di servizio che diceva che dovevano indossare jeans e giubettino di pelle come Fonzie" ha commentato ancora Motta. "Su queste Ford venivano "chupadi", cioè "ciucciati", come se chiamare le cose con un altro nome le rendesse meno gravi, coloro che poi diventavano desaparecidos, che ora comprendevano anche le Madres de la Plaza de Mayo".

Una volta chupade, queste donne vennero portate dove si trovava anche il resto di coloro che erano misteriosamente scomparsi: erano tutti all'ESMA, la Escuela de Mecánica de la Armada, cioè la scuola per la formazione degli ufficiali della marina argentina di Buenos Aires. Si trova vicino all'aeroporto, a un isolato dallo stadio di Buenos Aires, dove nel '78 si sono giocati i mondiali di calcio, ed è sostanzialmente l'Auschwitz di questo olocausto. È uno dei campi di concentramento di questo sterminio tattico ed è la ragione per cui la comunità internazionale ha fatto così fatica a rendersi conto di ciò che stava succedendo, perché se i tedeschi e i cileni hanno fatto tutto "alla luce del sole", gli argentini hanno creato dei piccoli centri di detenzione anziché dei campi plateali, e per chupar i detenuti hanno usato delle macchine civili, anziché dei carri, e li hanno distribuiti un po' di qua e un po' di là, nelle caserme militari, in modo che nessuno potesse dire di non essere coinvolto. Quindi di fatto, nessuno, o forse tutti, sapevano che in realtà poi lì dentro li torturavano, e magari ci andavano anche giù pesanti, e poi, siccome non potevano restituirli alle famiglie in quelle condizioni, li facevano sparire. "Non c'è guerra peggiore di quella che fa sparire i cadaveri, l'hanno chiamata Guerra sucia in spagnolo, cioè guerra sporca, perché non ci sono nemmeno i cadaveri: una madre e un padre possono anche accettare che il loro figlio sia morto in guerra, ma vogliono almeno avere un corpo su cui piangere. Il non avere un corpo, l'averlo fatto sparire, è un'offesa sopra l'offesa" ha commentato il professore.

La questione, poi, è ancor più perversa di quello che sembra. Inizialmente, si pensò di bruciare i corpi insieme ai copertoni, ma gli uni uniti agli altri emanavano una puzza particolarmente sgradevole e soprattutto sospetta, nei pressi dell'aeroporto, dello stadio e delle villette a schiera che circondavano l'ESMA. "Prima di bruciarli, poi, bisognerebbe ucciderli, ma ucciderli è una cosa contro la Chiesa! Ma nel Vangelo sta scritto "Gettati, perché Dio darà ordine agli angeli di custodirti, perché non urti contro la pietra il tuo piede": se non sono io a compiere il gesto letale nei confronti di questi dissidenti, ma ci pensa la natura, allora noi militari siamo innocenti''.

Da qui, dunque, nasce l'idea dei tristemente famosi "voli della morte". Ma prima di parlare di quelli, vale la pena di spendere due parole sulle condizioni dei desaparecidos. Una volta rinchiusi nell'ESMA, venivano tenuti un una soffitta a forma di cappuccio e per questo chiamata Capucha al freddo e al gelo persino d'estate. C'era più gusto, poi, a tener prigioniere le ragazze rispetto ai ragazzi, perché i maschi li picchi, tanto non parlano, e poi li fai fuori, mentre le donne appagavano la depravazione dei soldati. Inoltre, siccome esse praticavano il "libero amore", spesso capitava che venissero catturate già incinte, e i figli che portavano in grembo costituivano una fonte di guadagno: potevano infatti essere venduti alle famiglie ricche dell'aristocrazia argentina che volevano una prole ma senza gravidanza e tutti gli annessi. Gli interrogatori, invece, venivano fatti nei sotterranei. Questo vuol dire che i prigionieri facevano tre piani di scale ogni volta, e se in quelli intermedi c'erano gli alloggi degli ufficiali e la scuola della marina, allora nessuno dell'esercito poteva non sapere. C'era quindi questa concatenazione continua per la quale si diceva che "il fatto che tu abbia visto ti rende automaticamente colluso e corresponsabile, a prescindere che tu abbia effettivamente fatto qualcosa o meno", c'era questa solidarietà di gruppo fra gli ufficiali che era qualcosa di disarmante. Chi andrebbe mai a pensare, poi, che all'interno di una scuola militare ci sia un campo di concentramento?

Una volta "ottenute le informazioni" da questi detenuti e detenute, poi, si diceva loro che sarebbero stati portati in Patagonia. Paese subequatoriale, esattamente come noi per andare in Africa abbiamo bisogno di alcune precauzioni, anche ai prigionieri veniva detto che, per prevenzione contro alcune malattie, era necessario fare un vaccino: in realtà, ciò che veniva dato loro prima di salire sugli aerei che avrebbero dovuto portarli là era il tiopental sodico, una sostanza usata per l'anestesia totale ma conosciuta anche come "siero della verità", perché se somministrata in dosi inferiori ha effetto inibitorio, e alla fine si ottiene la perdita della volontà e della lucidità, prima ancora che lo stantuffo della siringa arrivi in fondo. Una volta sedati, i passeggeri venivano condotti sugli aerei, degli Skyvan nello specifico, come si accennava prima, secondo mezzo di trasporto simbolo di questo olocausto. Erano "particolarmente comodi" perché avevano dei portelloni squadrati che permettevano o ai muletti di caricare bancali, o ai paracadutisti di lanciarsi senza troppa fatica. O ai prigionieri di "cadere" senza doverli accompagnare.

La rotta Buenos Aires - Patagonia si effettuava tutti i mercoledì sera. Gli aerei che sarebbero dovuti arrivare nella regione subequatoriale, però, fermavano le loro corse a Rio de la Plata, che è un estuario che separa l'Argentina dall'Uruguay: sedati i prigionieri, era quindi necessario semplicemente aprire il portellone perché cadessero, ancora vivi. "Sta scritto che Dio dà l'ordine ai suoi angeli di custodirti, qualora dovessi cadere, ricorda che non ti ho spinto io, hai fatto tutto da solo. E quei corpi non li abbiamo uccisi noi militari, è stato il mare". Le prime vittime vennero smaltite così, ma quando butti un cadavere in mare, non puoi sapere dove viene portato dalla corrente, tanto più se hai una conformazione come quella di Rio de la Plata: alcuni cadaveri, infatti, giunsero sulle coste dell'Uruguay. Quando la polizia di Montevideo si accorse di questa cosa, non avendo notizie di naufragi né altre disgrazie di questo tipo, contattò Buenos Aires chiedendo informazioni su questi corpi. "C'è stato un festino a luci rosse su uno yacht di coreani" risposero, perché i cadaveri, ancora di più se pesti, in acqua si gonfiano, e assumono tratti somatici vicini a quelli degli asiatici. Ma la polizia di Montevideo si accorse non solo dei segni delle bruciature di sigarette e delle manette, ma anche del fatto che i corpi indossassero jeans con "Buenos Aires" sull'etichetta. La questione venne poi probabilmente insabbiata, ma a un passo dall'essere stati scoperti, all'ESMA si radunarono gli addetti alla tortura e si assicurarono che cose di questo tipo non accadessero mai più. "Li dovete picchiare senza che si capisca che li avete picchiati. Torturateli, ma non con bruciature di sigaretta, accendini e cose di questo tipo, usate qualcosa che non lasci traccia, tipo la corrente". E questo andò avanti per tre anni, utilizzando due tipi di aerei: il primo è lo Skyvan di cui prima, il secondo è uno sul quale i militari in realtà si rifiutavano di salire perché bisognava spingere i cadaveri anziché lasciare che "cadessero", e accompagnarli li urtava psicologicamente, anche perché poi rischiavano di cadere anche loro. "Non è modo di lavorare", sono state esattamente le parole di uno dei condannati poi durante il processo che in futuro avvenne.

Se c'è stato un processo, e soprattutto se ne stiamo parlando, è perché in qualche modo alla fine il tutto è venuto tutto a galla. Ma come, data l'assoluta segretezza con cui avvenivano non solo i rapimenti, ma anche le torture e le uccisioni? Le motivazioni, in realtà, sono due. La prima è che, una volta terminata la guerra delle Falkland con la sconfitta dell'Argentina, gli aerei dei "voli della morte" vennero venduti (usati) e finirono nelle mani della British Airways. Ma naturalmente, quando si compra un mezzo usato, la prima cosa che si fa è controllare i chilometri che sono stati fatti. Quindi gli addetti della British Airways controllarono la contamiglia, i libretti di volo e i libretti di manutenzione, e si accorsero che qualcosa non combaciava con ciò che invece dev'essere programmaticamente fatto. In sostanza, dall'Argentina era stato dichiarato che erano state fatte molte più miglia, ovvero quelle della tratta Buenos Aires - Patagonia che doveva avvenire ogni mercoledì sera, rispetto a quelle che erano state registrate e alle manutenzioni fatte. Perché, dunque, dichiarare, peraltro così frequentemente, viaggi che in realtà non erano mai stati fatti? Dove andavano con quegli aerei? La seconda motivazione, invece, viene dai piloti: molti di loro, dopo Videla, passarono all'aviazione civile e alcuni colleghi, anche di altre compagnie, quando si trovavano negli aeroporti, rimanevano un po' sconcertati dai racconti di questi, che quasi si vantavano di imprese che avevano fatto prima di quell'impiego. "Ah, sai cosa ho fatto io! Eh, sapessi", così, piano piano, sono arrivate le informazioni sui "voli della morte". E quando si è scoperchiato il vaso di pandora, chiaramente, è venuto a galla tutto, ma a causa dell'istituzione della "legge dell'obbedienza dovuta", che assolveva gli ex funzionari del regime per una questione di obbligo di obbedire agli ordini dell'epoca dei fatti - che è peraltro la stessa "scusa" usata dagli aguzzini durante la Seconda guerra mondiale, non è mai stato possibile trovare un colpevole. Morto Hitler, morto Videla, di chi è la colpa? Di tutti e di nessuno.

"Ora avete il contesto. Torniamo, però, al rapimento di Lisette. Dunque, tu puoi rapire gli argentini e pensare di farla franca, ma non puoi rapire due cittadine francesi, lei e Léonie, nemmeno nel '77, e pensare di non avere conseguenze. Fu così che l'ambasciata francese chiese informazioni su queste donne: dove sono? Stanno bene?" ha incalzato nuovamente il professor Motta. Per rispondere alle richieste, Buenos Aires adottò una tecnica che noi italiani conosciamo bene: posizionarono le due suore davanti a un lenzuolo, che riportava la scritta "Montoneros", ovvero gruppi di sovversivi di sinistra che potremmo paragonare alle Brigate Rosse italiane, diedero loro in mano un giornale che garantiva l'attualità dei fatti, 17 dicembre, e scattano una foto. "In sostanza, il governo finse che suor Léonie e suor Alice Domon fossero state rapite dai Montoneros, creando però un logo che non era nemmeno quello vero!" ha aggiunto ancora Motta.

Il 17 dicembre, però, era un mercoledì. E tutti i mercoledì sera partiva un volo da Buenos Aires diretto in Patagonia. Stavolta, però, su quel volo c'erano Lisette e suor Léonie, insieme alle fondatrici delle Madres de Plaza de Mayo, per un totale di cinque donne. I corpi di quattro di loro vennero ritrovati a sud della Francia, ma quello di Lisette non è mai stato rinvenuto. Che non vuol dire che sia viva, ma che c'è una disgrazia nella disgrazia.

"Nel romanzo che ho deciso di scrivere mi sono reso conto che quando trovi una storia di questo genere devi diffonderla, non importa se vende tanto o poco, un po' di mesi della tua vita li devi prestare per dare voce a queste persone, perché gli alunni delle scuole superiori la leggano e la conoscano e perché questa donna, che non ha avuto nemmeno la dignità di una sepoltura, possa almeno vivere nel ricordo di chi ne conosce la vita" ha detto il professore ancora in merito alla sua recente pubblicazione. "Quando poi mi sono messo a scrivere e mi sono chiesto chi dovessi far parlare, mi sono reso conto subito di non poter usare Lisette, perché le sue lettere sono molto tenere, ma siccome lei era una persona veramente semplice, sono piene di errori grammaticali e non le conferiscono l'appiglio della narratrice. Mi sono reso conto, inoltre, che nel cinema, nella letteratura, in generale, in qualsiasi racconto, i più interessanti sono sempre i cattivi, perché quando uno si comporta bene non ti chiedi il motivo, ma se uno si comporta male, sorge l'interesse di capire ciò che lo spinge ad agire in questo modo. Per questo quindi ho preso tutti gli atti dei processi e le dichiarazioni e le ho messe insieme per creare un personaggio che in realtà non esiste, ma che nel mio libro interpreta l'addetto alle pulizie della sala delle torture. Egli apre il libro mentre si lamenta perché tutti i giovani che venivano catturati avevano jeans e scarpe da tennis, e quando venivano trascinati fuori dai militari, dopo essere stati drogati e non avere quindi nemmeno la forza di stare in piedi, con le suole rigavano tutto il pavimento. E lui diceva: "Ma togliete loro le scarpe, no? Ok il vomito, ok il sangue, ma quelle cose lì faccio fatica a tirarle via, non è così che si lavora". Questo l'ho trovato veramente in un atto del processo, e mi ha fatto capire che il livello di aberrazione che questi individui avevano raggiunto era davvero il più basso possibile". All'insensibilità e alla crudezza dell'addetto delle pulizie si alternano poi, nelle pagine del romanzo, le lettere di Lisette, che costituiscono una pausa e un momento di respiro di fronte a questa perversa cattiveria.
"Vi ho raccontato il contesto, vi ho presentato il libro, ma non vi ho detto come è finita la questione, e la risposta è che, purtroppo, questo dramma è ancora in corso: non c'è più la dittatura di Videla, le Madres e soprattutto le abuelas stanno morendo, ma c'è un'altra categoria di vittime che ancora sta venendo a galla, e sono quei bambini che venivano sottratti alle madri prigioniere e vendute alle famiglie abbienti" ha poi aggiunto il professor Motta, avviandosi verso la conclusione dell'incontro. "Io stesso sono del '75. Se fossi stato argentino e fossi nato un anno dopo, o comunque dal '76 all'80, avrei potuto guardare i miei genitori e pensare: "Ma scusa, mamma, perché, se tu sei bionda con gli occhi azzurri e il papà è biondo con gli occhi azzurri, io sono moro con gli occhi neri?". C'è un'intera generazione di miei coetanei argentini che non sa di chi è figlio. Con il passare del tempo, poi, molti di loro hanno capito e hanno tentato di ricongiungersi non con la madre, ma con la nonna, mentre altrettanti hanno preferito non cercare. Ma in ogni caso, è brutto renderti conto che i tuoi genitori sono non dico colpevoli, ma sicuramente complici di tutto ciò che è successo, perché avere in casa un figlio avuto in questo modo, vuol dire sapere tutto sulle torture. Questa strategia, perversa e pervasiva, di coinvolgere tutti, sia, nel caso della popolazione, mettendo i bambini in casa alle famiglie, sia, nel caso dei militari, assicurandosi che tutti facessero almeno un giro sull'aereo, in modo che nessuno potesse dire di non essere coinvolto, questa deresponsabilizzazione di massa, hanno portato a compiere sì dei processi, ma a non ottenere nessuna condanna, perché di fatto erano tutti colpevoli''.

E infatti, non sono mai stati intentati processi da parte dell'intera comunità internazionale, solo i singoli Stati hanno provato nel corso degli anni. Inoltre, una volta scoperte le atrocità che erano avvenute, era ormai passato troppo tempo perché venissero ancora sentite come qualcosa di "vicino".
L'incontro si è quindi concluso con questa amara constatazione del professor Stefano Motta, seguita dagli applausi e dalle congratulazioni dei presenti e degli organizzatori.

Giulia Guddemi
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