Missaglia: l'On.Lupi intervista il giornalista e amico Del Debbio in un oratorio gremito

Un ospite speciale, quello di lunedì sera, per l'Oratorio San Giuseppe di Missaglia. A intrattenere il pubblico riunitosi nel salone polivalente di via Roma è stato infatti niente di meno che Paolo Del Debbio, giornalista e conduttore televisivo attualmente alla guida del programma Diritto e Rovescio che va in onda su Rete 4.

Da sinistra Paolo Del Debbio e Maurizio Lupi

Ad accompagnarlo, il presidente della Fondazione Costruiamo il Futuro, e parlamentare Maurizio Lupi: l'occasione per l'incontro, aperto al pubblico, è stata la presentazione del libro di Paolo Del Debbio "Le 10 cose che ho imparato dalla vita", in una serata di dialogo e confronto sulle tematiche del libro.
A introdurre la serata sono state le parole di don Bruno Perego, parroco di Missaglia che ha offerto la disponibilità della sala. "Io sono curioso di sentire "Le 10 cose che ho imparato dalla vita", perché non è più il tempo delle chiacchiere, delle discussioni, della dialettica, ma credo sia il tempo del confronto, della testimonianza e di stare di fronte alla realtà" ha detto. "Tanti ragionamenti e poca osservazione conducono alla menzogna, mentre pochi ragionamenti e tanta osservazione conducono alla verità: questa sera voglio quindi ascoltare".

L'onorevole Maurizio Lupi

Prima di affrontare la presentazione del libro, due parole di ringraziamento anche da parte di Maurizio Lupi, amico di vecchia data di Del Debbio. "Migliore introduzione non ci poteva essere. Permettetemi di dare del "tu" a Paolo Del Debbio, semplicemente perché ci conosciamo non solo da molto tempo ma per noi la conoscenza è anche un'amicizia che nasce a partire dalle responsabilità che ognuno di noi ha, e quest'amicizia con il passare del tempo, anche se poi le strade ti portano a fare avventure diverse, non è diminuita, anzi, si è approfondita nella stima, nel rispetto reciproco, e anche nella sintonia più assoluta" ha iniziato il politico. "Per questo quando è uscito il libro di Paolo Del Debbio "Le 10 cose che ho imparato dalla vita", edito da Piemme, che potete trovare anche al banco libri fuori curato da Peregolibri, subito e spontaneamente mi è venuta voglia di telefonargli e chiedere lui di incontrarci, che comunque la Fondazione la conosce, e mi piacerebbe farlo nell'ambito non di un incontro isolato, ma di un ciclo di incontri. Vorremmo incontrare persone e testimoni che ci possano raccontare la vita che viviamo, indicarci una strada, dialogando attraverso il libro, che è poi il racconto di una serie di esperienze, ovvero quello che desideriamo noi. Vedere anche tutte queste persone che hanno voluto incontrarci anziché sentirci via web - io sono contro qualunque cosa che sia a distanza - lo trovo molto positivo".

Le pagine di Del Debbio raccontano le memorie del padre, che dopo l'8 settembre fu deportato dai nazisti nel campo di concentramento di Luckenwalde, la sua infanzia a Lucca insieme a una famiglia che lo ha educato a essere felice con poco e a rispettare la dignità di ogni singola persona, dai più umili ai più altolocati, gli anni del seminario, l'incontro frenetico con i pensatori cristiani e il fascino del divino, lo studio - mai interrotto - della filosofia e dell'economia, uno studio che permea ogni cosa, e ancora il volontariato, l'assistenza ai ragazzi invalidi, i tanti lavori, l'incontro con Fedele Confalonieri di cui diviene assistente, l'incarico di scrivere il primo programma politico di Forza Italia, gli anni da assessore alla Sicurezza a Milano. Conduttore tv tra i più amati in Italia - oltre che docente universitario di Etica ed economia -, quella di Paolo Del Debbio non è un'autobiografia, ma "una riflessione a cuore aperto sul mondo, sugli altri e infine su se stesso".
Nell'intervista fatta da Maurizio Lupi, Del Debbio ha esposto al pubblico questo e tanto altro.

Il parroco don Bruno Perego

Maurizio Lupi: Questa volta si invertono le parti, sarà io a intervistare te. La prima domanda esce un po' da "Le 10 cose che ho imparato dalla vita", però è obbligatoria, proprio perché imparando dalla vita hai acquisito un modo per imparare a giudicare la realtà.
Mi piacerebbe iniziare con un tema di strettissima attualità che sta coinvolgendo tutti noi. Come immaginerete si tratta della guerra che, seppur inimmaginabile, ormai è nel cuore dell'Europa, e dopo la vicenda Covid, che ha sconvolto le nostre vite e addirittura limitato le nostre libertà. Abbiamo capito che non è solo un virus a essere in grado di varcare i confini di ogni singola nazione e provocare una crisi internazionale, ma purtroppo addirittura una guerra, sempre vista come una cosa lontana (Iran, Afghanistan).
Oggi è nel cuore dell'Europa e sta preoccupando e spaventando tutti, non solo per le conseguenze della risposta che l'Europa e la NATO stanno dando, le cosiddette sanzioni, ma anche per le immagini drammatiche che vediamo ormai quotidianamente. Quale giudizio dai tu? I miei ragazzi, sempre molto bravi, mi hanno riferito che all'inizio di una puntata sulla guerra in Ucraina hai detto: "andando un po' in giro ho potuto verificare di persona quante donne e uomini ucraini sono preoccupati per la situazione dei loro familiari e della loro terra, ma ho visto anche quanti italiani sono preoccupati, partecipi e solidali con questo popolo e queste persone. Questo è anche il senso della mia puntata e della mia presenza, una solidarietà assoluta con le donne e gli uomini dell'Ucraina": ecco, in che modo si può tradurre questa solidarietà, e come può essere concreta? E come può il giudizio essere evitato?

Paolo Del Debbio:
Io stamattina sono stato a fare il mio servizio settimanale che si chiama "Copertine" e che apre le mie puntate, in cui vado a incontrare tanta gente. Stamattina ho incontrato una signora che ha appena compiuto 105 anni. È quindi è nata durante la Prima guerra mondiale, ha vissuto la Seconda, e ora ha chiamato e ospita la figlia, il nonno e un'altra persona per questa guerra. Stamattina sono partito subito con un bel respiro di umanità, ho incontrato questa donna lucida e le ho chiesto"ma secondo lei di cosa ci sarebbe bisogno?" e lei fa "in questa guerra qui c'è qualcuno che non è onesto", è una lettura naturalmente semplice, però... qui il problema è che nel 2014 ci fu la Crimea, quindi chi voleva capire poteva capire quello che allora sarebbe successo. Si era già capito quali erano i piani, qual era il posizionamento ecc. Nel frattempo la politica estera è diplomazia, insomma un tentativo di risoluzione pacifica dei problemi in tempi brevi, ma anche politica di potenza, c'è poco da fare. Se l'Europa avesse avuto un esercito europeo, con tutta probabilità Putin ci avrebbe pensato due volte a fare quello che ha fatto. L'esercito europeo non serve per fare la guerra, serve per evitare che gli altri la facciano. L'Europa ha bisogno di una politica estera comune e di una difesa comune, perché nel mezzo delle grandi potenze, è una grande potenza. Numericamente siamo persino più degli americani, quindi non siamo affatto piccoli o in minoranza. Abbiamo tutte le caratteristiche per coprire un vuoto, perché in politica interna quando c'è un vuoto qualcuno ci mette piede di sicuro, e se il vuoto lo si ha in politica internazionale, ci mette piede Putin, ci mette piede Erdoğan, ci mette piede Xi Jinping. Vogliamo lasciare tutto così? Con l'America che dorme, con Biden che sembra un pesce lesso? Noi abbiamo la possibilità concreta - e sono ottimista da questo punto di vista - di svolgere un ruolo che nel mondo non può svolgere nessun altro, perché le radici culturali che abbiamo noi non le ha la Cina, non le ha la Turchia e solo in parte le ha la Russia. Noi abbiamo un grande patrimonio, e possiamo metterlo su un tavolo delle trattative. Lo stiamo facendo? No. Ognuno va, singolarmente, come Macron, e immancabilmente fallisce. Dopo la Crimea non è successo nulla, e io spero che, vista anche la situazione economica dovuta ai due anni di covid a cui si sono uniti la crisi energetica e il rincaro dell'energia, nel dopo Ucraina questa volta ci si decida ad agire finalmente come un Europa unita.

Maurizio Lupi: Solidarietà che si esprime, emerge molto questo grande cuore del nostro popolo che si mobilita ogni volta, e non è solo una questione di sentimento, ma anche qualcosa insito nel nostro DNA, soprattutto in Brianza. Inizierei il percorso che fai con il tuo libro. Si intitola "Le 10 cose che ho imparato dalla vita" anche se poi ce n'è un 11esima, che indica un quesito ancora aperto: si tratta del tema dell'amore. Prima di arrivare a questo volevo però farti una domanda sulle tue trasmissioni dato che leggendo il tuo libro ho capito una cosa. Al di là dell'essere d'accordo o meno sui temi che tratti, io credo che questa tua insistenza sui volti, sulle storie, sia un po' il filo conduttore di questa nuova trasmissione che hai portato a Rete4, e questo nasce dalle tue esperienze. Quando parli di "soldino" - per chi leggerà il libro, l'uomo che ti guarda e ti chiede un piccolo soldo - hai raccontato che la cosa che più ti impressionò erano i suoi occhi, fotografati da un suo compagno di liceo. La domanda è questa: che cos'è per te un volto, una storia, una persona? Come ti interroga?

Paolo Del Debbio:
La realtà umana e le persone che ci circondano e che incontriamo sono innanzitutto un volto. Il volto può essere complice, innamorato, che odia, che ama, che domanda perché ha bisogno, che viceversa si offre perché ha da dare qualcosa... io ho deciso di creare qualche anno fa questo format televisivo, questa trasmissione, ma qual è il filo conduttore? È sempre stato far parlare delle persone, far parlare i responsabili, politici e tanti altri, far parlare opinionisti, giornalisti ecc, non tra di loro, ma farli interloquire con un terzo soggetto. Diceva Madre Teresa di Calcutta "molti parlano dei poveri ma pochi parlano con i poveri". Io penso che questo sia vero, e che la televisione sia un mezzo potente per poter fare ciò, ovvero dare voce a chi di voce non ne ha. Perché, diciamo, un politico può avere più o meno voce, ma certamente ha uno spazio suo. Un opinionista, poi, lo fa di mestiere, o un giornalista come me in televisione viene chiamato per discutere. La gente comune, soprattutto quelli più in difficoltà, non hanno ampie possibilità di far sentire la propria voce. Insomma la mia formula è molto semplice: se si parla di pensione, io voglio in studio i pensionati, se si parla di sanità, io voglio in studio famiglie con persone malate, non solo in studio ma collegate anche dalle piazze. Se si parla di tasse, io voglio in studio piccoli imprenditori e famiglie che non ce la fanno a pagarle. Dunque io sono stato accusato di populismo, ho pubblicato anche uno scritto che si chiama "Populista e me ne vanto", e se populismo è lisciare il pelo a tutto quello che dice il pubblico da casa o dalle piazze perché si pensa che in quanto bisognosi abbiano comunque ragione, allora non sono populista, perché sarei altrimenti un cretino. Non è che il popolo ha ragione a prescindere da tutto in quanto popolo. Ma la questione è: se il populismo è ritenere legittimo che una persona che non è preparata, che non è colta, che parla un italiano incerto, gridi perché ha un bisogno e si sente inascoltata, allora non solo sono populista, ma me ne vanto anche. E sai benissimo, Maurizio, che una delle cose di cui possiamo vantarci, è che, guidati da Gabriele Albertini, noi a Milano ci siamo occupati delle periferie come non se ne è occupato mai nessun altro, e infatti l'ha riconosciuto anche la sinistra. Se vai in periferia ci sono volti pieni di umanità ma scarsi di risorse, perché sono persone vere, umili, sincere, a volte anche delinquenti per carità, ma c'è una grande, enorme, fetta di umanità, e io ho voluto portarli in televisione. Certo, l'ho sempre fatto con equilibrio? No. Mi è sempre riuscito tenere la barra dritta? No. Sono sempre riuscito a tenermi le redini della trasmissione dall'inizio alla fine? No, ma il regno della perfezione non mi appartiene. Ma nessuno potrà mai contestare il diritto di queste persone esasperate a parlare e farsi sentire, e questo è un punto su cui non transigo.

Maurizio Lupi: Veniamo all'undicesimo, che si chiama "L'amore non so cos'è ma so quando c'è", e nel quale hai parlato di una certa nostalgia inappagata.

Paolo Del Debbio:
Io non ho alcuna autorevolezza per parlare di questioni spirituali come potrebbe fare un maestro o come don Bruno, che, dalle poche parole che ha detto, ho sentito che è un uomo che dentro ha una bella miniera. Io da bambino ho sentito questa "attrazione" - naturalmente ero un bambino, non potevo immaginare che si chiamasse mistero, ineffabile e tutti gli attributi che oggi diamo - e sentivo che oltre a quello che facevo c'era questa sete di spiritualità, questa volontà di non fermarsi alla superficie, di andare oltre, di osservare tanto, come diceva don Bruno, di non fermarsi alla prima impressione che hai delle cose, di non giudicare un volto dalla prima apparenza, di pensare che c'è sempre qualcosa di più, di pensare che il punto dove sei arrivato è un punto sempre parziale, di non adagiarsi mai dove sei arrivato, ma considerarlo un punto di partenza e proseguire. Questo per me è spirituale perché se sei solo ciò che fai, ciò che hai e che conduci tutti i giorni, non hai questa sete, sei appagato. Ma poi, trovandosi di fronte a un'esperienza limite, cioè che non puoi capire, tipo l'ingiustizia, come la foto di questa settimana della mamma incinta con il bambino che muore a Mariupol', di fronte a quest'esperienza, perché ti viene la pelle d'oca? Non conosciamo questa donna, ma senti che è ferito in lei qualcosa che hai anche tu, che è l'umanità. È come se grattasse sulla tua di pelle, anziché sulla sua. Per cui questo sentimento, questo qualcosa in più, che è irraggiungibile e proprio per questo ti attrae continuamente, ecco, questo si chiama amore. Che non è amore nel senso stretto, il mio primo amore vista così, appunto, è stato proprio questo mondo spirituale. Poi mi sono innamorato della musica, della filosofia e di moltissime altre cose. E ho scritto una frase ispirandomi a quella di Sant'Agostino sul tempo, se mi chiedessero di dare una definizione di amore non la saprei fornire, però so quando c'è, e lo so perché la tua persona viene coinvolta oltre il corpo, in un modo che ti piglia tutto, ha le farfalle nello stomaco. Di questo amore qui, che è indefinibile, chi può esserne responsabile, se non qualcuno che sta al di là della possibilità di una conoscenza? Dio, infatti. Mi sento dire con sincerità questa cosa, cioè nella mia vita non si è mai spenta questa fiammella che si chiama amore e che ti spinge a non accontentarti, ad andare avanti, anche da un punto di vista materiale, ma che non ti lascia fermo e tranquillo.

Maurizio Lupi: A me uno dei capitoli che più ha colpito perché è totalmente umano e non ideologico è quello in cui parli del tuo babbo: deportato, insieme a un suo amico, vorrei che ci parlassi dell'esperienza del male, dell'ideologia che si abbatte. Leggo solo un pezzo di quello che hai scritto, parlando di tuo papà: "Lo so, è già ricorsa spesso la parola "dignità", e ricorrerà ancora, perché se c'è un tratto distintivo del mio babbo è quello averla tenuta prima, durante e soprattutto dopo questa tragica esperienza", appunto, quella della deportazione. "Era un uomo piagato da questa esperienza disumana, ma non era piegato. Non so francamente come, ma anche sotto le manganellate e le bastonate e le botte inflittegli con il calcio del fucile aveva mantenuto la schiena dritta: quante volte ho pensato che io per molto, ma molto meno, mi sono sentito vacillare."

Paolo Del Debbio: Io sono rimasto sempre con questo punto di riferimento saldo. Il mio babbo quel maledettissimo 8 settembre del 1943, in cui il nostro re fuggì, fu catturato dai militari e deportato in un campo di deportazione e smistamento, da cui poi li spostavano verso i campi di sterminio. Naturalmente ricevevano botte continue, ed era facile perdere la lucidità. Ma mio papà a un certo punto una sera sentì nella baracca la voce di una persona che veniva da Lucca (di dove sono originario io). Come prima cosa pensò di star impazzendo, perché molti andavano fuori di testa, pensavano di sentire le voci dei fidanzati, mariti ecc. Ma la sentì uno, due, tre giorni, a un certo punto si decise, inseguì questa voce e vide questo omone. I due si chiamarono con il loro nome e, senza neanche girarsi, si riconobbero, amici compatrioti. Ora, nei campi di concentramento la maggior parte delle persone si lasciava andare e non si lavava. Ma il mio babbo pensò di dover fare qualcosa, ovvero di dimostrare in qualche modo che avrebbero comunque mantenuto la loro dignità: così tutte le mattine si facevano il bagno, si lavavano, si facevano la barba facendo sciogliere il ghiaccio che si formava in inverno, e si presentavano davanti agli aguzzini nazisti. Come dicevo, appunto, era un uomo "piagato ma non piegato", proprio perché ha sempre mantenuto la dignità. E a me, a mia sorella e mio fratello diceva sempre questo: "fatevi togliere tutto, ma non la dignità, perché se l'ho mantenuta io in campo di concentramento, voi potete cavarvela senza problemi. Siate grati nella vita, si può fare a meno di tutto, tranne che della dignità''.

Maurizio Lupi: Tu tieni molto a sottolineare la tua radice popolare, che non è solo una questione di classe sociale, ma anche una condizione di dimensione umana, nel senso di affondare le radici nel popolo. Non si può negare che sia per me che per te l'ascensore sociale ha funzionato, possiamo dire che oggi siamo parte della classe dirigente di questo paese. Quindi ti chiedo: c'è differenza tra successo e merito? Cosa è la riconoscenza? Esiste la gratitudine? Sei d'accordo col fatto che ci si fa da soli, ma ci devono comunque essere delle condizioni?

Paolo Del Debbio: Per prima cosa ringrazio la mia famiglia, perché mi ha insegnato a vivere con poco, e infatti il capitolo del libro dedicato si chiama proprio così. In famiglia mia si viveva con gratitudine il poco che avevamo, e per questo si viveva felici. I miei genitori questo non ce l'hanno mai detto a parole, semplicemente lo vedevamo, capivamo che erano persone sempre felici, sorridenti e grate della vita, e lo abbiamo imparato per osmosi. Vedevamo questa vita vissuta così e abbiamo appreso questo atteggiamento. Poi, personalmente, ho avuto la fortuna di studiare, e ancora, un po' per grazia di Dio, un po' perché ho incontrato tante persone, ora sono qui. Ma una parte tua ce la devi mettere, nessuno ti regala niente: io ho fatto l'università lavorando, per esempio, ho iniziato a lavorare quando avevo 13 anni, e ho fatto molte esperienze. Non c'è un lavoro più importante di un altro, il lavoro è lavoro, punto. Non aspettate il lavoro ideale, fate esperienza, e capite cosa vuol dire avere da vivere perché ve lo siete guadagnati. L'autonomia, la non dipendenza, sono stati importanti.

Maurizio Lupi: Tutti dicono che quando io vedo una telecamera la rincorro, quindi voglio chiedere anche il tuo parere a riguardo: la televisione può diventare una malattia, in particolare quando ti riconoscono per strada, quando inizi ad avere una certa fama. Come si resta coi piedi per terra?

Paolo Del Debbio: Io ho avuto la fortuna di iniziare a fare televisione molto tardi, a 48 anni, quindi ci sono arrivato che ero già me stesso, e posso dire che più che aver plasmato me la televisione, sono io che vi ho portato me stesso, perché sono rimasto quello che ero. Io ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente che mi ha formato molto come persona, appunto, le radici popolari di cui parlavo prima, poi ho avuto anche la possibilità di studiare molto, ma sono comunque rimasto sempre lo stesso. La televisione, però, è molto pericolosa: tu pensa che c'è gente che vi compare una volta e quella successiva già è cambiata, perché una volta uscite, le persone si gonfiano, e già subito le vedi cambiate. La televisione ti fa perdere la testa, ho visto anche colleghi, anche in gamba, finirne "vittima".

Una volta conclusa l'intervista, i due ospiti si sono concessi una foto per commemorare l'evento, che si è concluso con un firmacopie e gli applausi scroscianti del pubblico.

Giulia Guddemi
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