Villa Greppi: Azra Nuhefendic racconta Sarajevo prima, durante e dopo l’assedio

''I miei genitori, tutti e due partigiani e membri del partito comunista, ci hanno cresciuto senza...'' ha esitato solo per un attimo Azra Nuhefendic. ''Non posso dire senza un credo. Non eravamo religiosi ma credevamo nella gente, nel bene''. Credere nella gente e nel bene. Parole semplici solo all'apparenza, quelle che l'autorevole giornalista bosniaca ha restituito agli spettatori accorsi nell'antico granaio di Villa Greppi a Monticello la sera del 9 giugno. Parole fortificate dallo scontro con uno dei più drammatici eventi della storia recente europea.

Azra Nuhefendic e Daniele Frisco

Un evento, quello dell'assedio di Sarajevo durante la guerra in Jugoslavia, di cui Azra Nuhefendic ricorda tutto. Per questo, Daniele Frisco, consulente scientifico del consorzio brianteo Villa Greppi, le ha chiesto di presenziare come ospite nell'appuntamento centrale della rassegna ''1992 - 2022. La guerra in casa'' organizzata in occasione dei trent'anni dall'assedio alla capitale bosniaca, il più lungo della storia recente. Una testimonianza, a tratti atroce nella sua limpidezza, con cui è stata rievocata una storia che in tanti, soprattutto i più giovani, conoscono a malapena perché a scuola non la studiano. ''Qual sono le caratteristiche di Sarejevo che la distinguono dalle altre città jugoslava?'' ha chiesto per prima cosa Frisco. ''Bhe, l'assedio'' ha risposto d'istinto la dottoressa Nuhefendic.
Nonostante il sorriso della giornalista, il carico emotivo di questa risposta ha riempito subito l'antico granaio. ''Sarajevo non è bella come Roma o Parigi. Quello che attrae di Sarajevo è l'atmosfera, i cittadini, la cordialità dei rapporti tra la gente. Sono cose che in altre città non si trovano'' ha poi raccontato la vincitrice del Writing for CEE - Journalism Prize nel 2010. ''Mescolanza tra modernità e tradizione, mescolanza delle genti, delle religioni, dei costumi. Tutta la storia di Sarajevo è fatta da questa mescolanza. Il fatto che la Bosnia Erzegovina sia per la quasi totalità un territorio di alte montagne aveva spinto il governo a costruire qui l'industria militare. Questo aveva attratto giovani lavoratori dalle altre parti della Jugoslavia''. Parole vive quelle di Azra Nuhefendic, un entusiasmo simile a quello di chi racconta un sogno.

Daniele Frisco ha quindi chiesto alla autrice bosniaca di soffermarsi sul passaggio più importante di questa prima parte della storia: le Olimpiadi invernali organizzate a Sarajevo nel 1984. ''Questa diversità, questa tolleranza hanno arricchito così tanto Sarejevo che la città è riuscita a diventare la capitale dei film, dello sport, della musica. Oggi la Bosnia è per la gran parte pulita e pura sul piano etnico'' un velo di tristezza fa capolino per un attimo nella voce della dottoressa Nuhefendic. ''Abbiamo conquistato la possibilità di organizzare le Olimpiadi dapprima sconfiggendo le resistenze della Serbia e della Croazia, che ci consideravano un po' il "cugino povero", poi vincendo la competizione con Canada e Giappone. In quel periodo a Sarajevo iniziava a nevicare ai primi di ottobre ma quell'anno il giorno prima dell'inizio delle gare della neve non c'era traccia. Improvvisamente, mentre in città dominava la preoccupazione, ha iniziato a nevicare. Abbiamo incominciato a ballare per le strade. Il giorno dopo, a seguito di un appello del presidente del comitato olimpico bosniaco, migliaia di persone si sono mobilitate per ripulire strade e piste da sci perché di neve ne era caduta troppa''.
Di nuovo, un grande sorriso ha colorato il visto della giornalista, la quale, dopo aver ripreso fiato, ha quindi concluso ''Buon vicinato. C'era un detto a Sarajevo: una casa vale di più se ha un buon vicino. Questo buon vicinato ha sostenuto e salvato i cittadini di Sarajevo durante la guerra e sopravvive ancora oggi''. Già, la guerra. ''Negli anni Ottanta tu lavoravi a Belgrado.

Marta Comi, vicepresidente di Villa Greppi

Quando ti sei accorta che c'era qualcosa che non andava?'' ha chiesto il dottor Frisco. ''Mi ero trasferita a Belgrado perché li si praticava un giornalismo innovativo. All'inizio i miei colleghi mi chiesero più volte perché fossi venuta. È una domanda che ti fanno solo nelle città chiuse su sé stesse, comunità dove credono che chi viene da fuori abbia meno diritti di chi è nato lì. Mi chiamavano turca, accomunandomi ad un popolo che ha soggiogato la Bosnia per cinquecento anni solo perché provenivo da una famiglia di origine mussulmana. Questa, che all'origine era una battuta semiseria, durante la guerra è diventata una vera e propria accusa. Vojislav Šešelj, fondatore del partito radicale serbo, aveva redatto una lista di giornalisti nemici su cui c'era anche il mio nome''. Giornalisti e media che hanno un ruolo cruciale in questa vicenda. ''I media e i giornalisti hanno preparato il terreno per la guerra così come nel Medioevo l'artiglieria spianava il terreno all'ingresso della fanteria. Molto prima che iniziasse il conflitto ho visto colleghi inventare notizie con il solo scopo di costruire un nemico e diffondere odio. Le guerre non scoppiano mai per caso, sono sempre attentamente pianificate. L'ex armata popolare jugoslava aveva posizionato l'artiglieria pesante intorno a Sarajevo mesi prima dell'avvio delle ostilità, senza fornire spiegazioni ai giornalisti che facevano domande. C'erano un piano, chiamato R-A-M, per ripulire etnicamente e poi dividere la Bosnia Erzegovina''. Si sentiva solo il ruggito del vento scuotere le pareti del granaio, il silenzio era totale. ''Dove eri il 5 aprile del 1992, quando è iniziato l'assedio?'' ha chiesto il consulente del consorzio Villa Greppi. ''Ero a Belgrado. A Sarajevo, da dove arrivavano notizie di cui non mi fidavo, c'erano i miei genitori e non potevo comunicare con loro perché le linee telefoniche erano state tagliate. Mi sono offerta di fare da guida ad alcuni giornalisti norvegesi in cambio di un passaggio. Quando siamo arrivati al fiume Drina, confine tra le due repubbliche, sulla sponda serba ho visto gli enormi cannoni puntati verso il territorio bosniaco e gli ufficiali del ex - armata popolare jugoslava salutare Željko Ražnatović. Li ho capito che la Jugoslavia si stava spaccando'' ha raccontato Azra Nuhefendic trattenendo a stento la commozione. ''Sarajevo è stata bombardata con 350 granate al giorno. Il 22 luglio del 1992 sono caduti sulla città più di 3000 ordigni. Quattro anni, una capitale europea è stata lasciata sotto assedio per quattro anni. Il terrore dei cecchini era strisciante. Dopo la fine della guerra, durante i lavori per un libro ho girato le alture intorno alla città e ho capito che per gli abitanti nessun posto era sicuro. Si mettevano lenzuola e coperte sugli incroci per oscurare la visuale quanto più possibile. Abbiamo vissuto nelle cantine, i bambini nascevano e crescevano nei sotterranei. Sono state ammazzate 12000 persone solo dai cecchini. Una delle prime vittime è stata una bambina di quattro anni. Una mia amica è stata colpita e si è salvata solo perché era ormai così "esperta" della guerra che è riuscita a trascinarsi fino all'estremità del ponte''.

L'intensità del racconto d'improvviso è rallentata, il dolore ha lasciato il posto ad una drammatica riflessione. ''Un cecchino vede a chi spara. Vede se è un bambino, una donna, un uomo. Può scegliere di volta in volta se uccidere o tenere in vita. Durante i lavori per il testo a cui mi riferivo sono stata contattata da uno di quei cecchini, rimasti del tutto impuniti. Ci siamo incontrati a Sarajevo e abbiamo parlato per tre ore. Non ho visto nessun rimorso, l'ex militare mi ha detto che tutto quello che ha fatto lo ha fatto per la patria. Per metà mussulmano, sposato con due figli, specialista informatico. Un signore con una vita normalissima. Ma in fondo che cosa è veramente normale?''. Che cosa è veramente normale? Come fa un uomo a trasformarsi in un assassino e poi a ritornare una persona normale? Neanche il vento forte avrebbe potuto spostare queste parole, rimaste in sospeso tra i presenti. ''A Trieste, dove vivo ormai da trent'anni, considerano la Jugoslavia come un paese in cui esisteva una dittatura. Io sono nata nella Jugoslavia, credevo nella Jugoslavia e tutt'oggi mi considero una jugoslava. La verità è che noi avevamo tutto quello che ci serviva per fare una vita comoda. Sport, accesso all'università, opportunità, tutte cose che ho perso quando mi hanno costretta a scappare. Tutte cose che nella Bosnia di oggi, ripulita etnicamente e divisa, non ci sono più. La corruzione dilaga, il sistema industriale non è stato ricostruito. Continuiamo a convivere con l'ostilità di serbi e croati che ostacolano in tutti i modi il nostro ingresso nell'Unione Europea. Un ingresso che sarebbe dovuto avvenire subito dopo gli accordi di Dayton se l'Europa avesse avuto davvero buone intenzioni. E invece non è stato così, siamo stati sostanzialmente abbandonati in un limbo. Prima della guerra in Ucraina i serbo - bosniaci volevano dichiarare la secessione. Sarebbe la morte della Bosnia''.

L'incontro è terminato. La gente ha iniziato ad avvicinarsi al tavolo dei relatori per ringraziare Azra Nuhefendic per la sua potente testimonianza. C'è una domanda nell'aria: perché sui media non si parla mai della situazione in Bosnia e nella penisola balcanica, al netto di qualche raro reportage sui migranti? Un quesito portato via dal vento. Il dramma del racconto di questa sera no, quello è rimasto.
Andrea Besati
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