Dall'Afghanistan a Casatenovo: Nooreddin, 36 anni, ci racconta la sua storia

"Mi chiamo Nooreddin Malekzdeh". Così è iniziata l'intervista. O meglio, una calorosa ed amichevole chiacchierata. Nonostante avessimo solo parlato al telefono fino a quel momento, infatti, Nooreddin e la sua famiglia ci hanno accolti nella loro casa in una tiepida domenica di fine estate.
"La nostra cultura è fondata sull'ospitalità" ha sottolineato più volte l'uomo, mentre uno dei suoi tre figli disponeva sul tavolo una torta fatta in casa per l'occasione. "Mi chiamo Nooreddin Malekzdeh, sono nato il 1° aprile 1986 a Herat in Afghanistan e lì ho svolto il mio percorso scolastico. Mi sono laureato in legge e teologia" ha spiegato il padrone di casa con voce ferma "Nel 2009 ho iniziato a lavorare come interprete per l'esercito americano. Dall'ottobre 2010 al giugno 2021 ho lavorato, sempre come interprete, per l'esercito italiano. Prima con i Carabinieri, il cui compito era quello di addestrare la polizia afgana, poi con le forze speciali. Il 13 giugno 2021 il mio lavoro è terminato, io e la mia famiglia siamo partiti da Herat e siamo arrivati a Roma". Un poco di contesto. Molto poco per questioni di sintesi. Nel giugno del 2021 è ufficialmente terminata la partecipazione italiana alla missione internazionale denominata Resolute Support, la quale vedeva le forze straniere impegnate in attività di formazione, assistenza e consulenza a beneficio dell'esercito e delle forze di sicurezza afghane. Una missione iniziata nel 2015, quando ha sostituito ISAF. Una missione in cui sono stati spesi miliardi di dollari in equipaggiamenti per i soldati afgani. Eppure, a metà agosto 2021, nel giro di pochi giorni l'intero paese è collassato.

Nooreddin Malekzdeh

"Quello afgano era un esercito addestrato ed equipaggiato con attrezzature moderne. I talebani avevano gli Ak - 47 e le moto. È stato molto strano per tutti ciò che è accaduto" ha sottolineato Nooreddin. Assieme a sua moglie e ai suoi figli, Nooreddin ha visto i telegiornali italiani riempirsi delle drammatiche immagini provenienti da Kabul. La folla intorno all'aeroporto internazionale Hamid Karzai. "Mio fratello era lì, all'aeroporto, con sua figlia, diciottenne e affetta da una disabilità. Non è riuscito ad entrare per la troppa gente. La moglie di un mio amico è morta schiacciata dalla calca" ci ha raccontato Nooreddin. Il suo sguardo si perdeva spesso fuori dalla finestra. Nei suoi occhi c'era una preoccupazione profonda, vecchia di anni. "Nella provincia in cui abitavamo tutti sapevano che lavoravo per le forze occidentali. Ero preoccupato per la mia famiglia. Temevo che un giorno i talebani sarebbero arrivati e avrebbero ucciso tutti i miei cari" ha ricordato l'afgano. Forse chi ha negoziato e poi firmato gli accordi di Doha pensava che i talebani di oggi non sono più quelli di fine anni Novanta. Nooreddin su questo è stato categorico. "Le persone cattive non cambiano mai. All'epoca del primo governo dei talebani io avevo dieci anni. Nessuno poteva portare i capelli lunghi, anche i bambini dovevano indossare il turbante. Non si poteva né ascoltare la musica né realizzare video. A scuola ogni attività era incentrata sullo studio dei testi religiosi. Le donne non potevano andare a scuola e quindi non imparavano a leggere e a scrivere. Mia moglie è stata una delle vittime di quel regime".
Proprio in quel momento la moglie di Nooreddin è entrata nella stanza dell'abitazione casatese e ci ha salutati con affetto e calore. Fermiamoci un secondo e riflettiamo: nascere e crescere in un paese governato da un regime oppressivo, dove non sono garantiti diritti e libertà individuali fondamentali; assistere alla caduta di questo regime ed assaporare per venti anni quelle libertà, il piacere di poter ascoltare la musica o anche solo dire ciò che si pensa; perdere tutto di nuovo, vedere la speranza abbandonare la propria terra natia senza lasciarsi dietro alcunché di concreto. Quanto può fare male all'anima? Al dolore per la propria patria si aggiungono le difficoltà della vita in un nuovo paese. "All'inizio i mesi passati nel CAS non sono stati semplici. Avevamo difficoltà a portare i figli a scuola. Potevamo contare su poco meno di 7,5 euro a testa al giorno. Ci è voluto un anno solo per ottenere il permesso di soggiorno" ci ha raccontato Nooreddin. Poi i suoi occhi si sono illuminati. "Per fortuna abbiamo incontrato persone che ci hanno aiutato molto. Michela, Paula, un gentiluomo come Luca. Si sono presi cura della mia famiglia. E poi l'equipe de La Grande Casa. Sono davvero i numeri uno, ci hanno aiutato anche al di là del progetto". È stato solo un attimo fugace. La preoccupazione è tornata subito a farla da padrone. "Due miei fratelli sono meccanici e lavoravano anche loro per gli occidentali. Sono rimasti in Afghanistan. Sono tutt'ora nascosti e si muovono solo di notte e di continuo per non farsi trovare. Tutti sanno che loro hanno lavorato per i soldati stranieri. Se i talebani li trovassero li ucciderebbero". La voce di Nooreddin era intensa, le emozioni che cercava di raccontarci erano molto forti. "I talebani sono andati da mio padre e lo hanno minacciato. Gli hanno detto che i suoi figli hanno lavorato con le forze della coalizione e hanno guadagnato tanto. Gli hanno detto che se non avesse pagato 38mila dollari entro due settimane lo avrebbero ammazzato. Per ora è riuscito a recuperarne solo 13mila. Non so cosa succederà nei prossimi giorni, abbiamo un checkpoint dei talebani davanti casa". Nooreddin ha abbassato lo sguardo. Per un attimo si sono sentite solo le gioiose risate dei bambini nell'altra stanza. "La situazione in Afghanistan è molto brutta. Tanti ex membri dell'esercito o della polizia afgana sono stati uccisi dai talebani dopo essere stati torturati. Le persone muoiono di fame. Non ci sono soldi, non c'è lavoro, non c'è futuro" ha concluso l'afgano. Il più grande dei tre bambini ha fatto di nuovo capolino nella stanza. Gli abbiamo chiesto se è pronto per tornare a scuola. Sorridendo, ci ha risposto con un convinto sì. "In Afghanistan stavamo bene, avevamo una grande casa e diverse auto. Ma non mi interessa tutto questo. Io sono preoccupato per la mia famiglia. Sono in grave pericolo" ha sottolineato Nooreddin. Mentre mangiavamo la squisita torta preparata dalla moglie, l'afgano ci ha mostrato delle foto della vita nel suo paese. Il suo viso traboccava di una triste nostalgia. "Sono andato tre volte al ministero a chiedere aiuto ma non ho ricevuto alcuna risposta concreta. Eppure, anche i miei fratelli hanno collaborato con gli occidentali" ha aggiunto Nooreddin prima di salutarci. Caro Nooreddin, mentre tutti gli operatori e i volontari che ti hanno aiutato sono il nostro orgoglio, la politica non sempre (anzi, quasi mai) dà risposte concrete.
Andrea Besati
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