Nibionno: il dramma degli esuli istriani e delle foibe nel racconto di due testimoni

“Andare per rimanere. Per rimanere italiani”. Una ferita nel cuore, mai suturata, per i 350.000 esuli costretti, nel secondo dopoguerra, a lasciare le terre istriane per non tradire l’Italia e, in seguito, a subire ingiustizie proprio dalla patria che avevano tanto difeso. A dare voce a tutti loro, nella gremita biblioteca civica di Nibionno, proprio due esuli: Giuseppe Pino Lentini, classe 1954, da Pola e Adriano Jadran Savarin, classe 1957 da Capodistria.


Claudio Usuelli, il sindaco Laura Di Terlizzi, Adriano Jadran Savarin,
Giuseppe Pino Lentini, Alberto Bigoni e l’assessore Davide Biffi

Grazie alla legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stata infatti istituita la Giornata del ricordo, che consente di parlare della tragedia che ha riguardato i residenti delle terre d’Istria e Dalmazia. L’iniziativa che si è tenuta venerdì 10 febbraio è stata patrocinata dal Comune con la collaborazione della delegazione provinciale di Lecco dell'associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. La proposta è arrivata dalla Commissione Biblioteca presieduta da Alberto Bigoni che ha ricordato come la serata sia stata proposta per ricordare la storia, dando voce alle persone che l’hanno vissuta.


Il sindaco Laura Di Terlizzi ha affermato in apertura: “Si celebra sempre la Giornata della memoria con tanti eventi, molto meno accade per questo momento, dedicato agli esuli che hanno dovuto abbandonare le loro terre. Sono momenti di storia passata che lasciano vive nella nostre menti quello che è successo. Spero che anche nel futuro si possa continuare a celebrare e che si possano organizzare eventi sovracomunali”.


Sono state entrambe testimonianze dolorose, accompagnate da qualche lacrima, che hanno trasmesso la desolazione di chi si è sentito estraneo nella propria nazione e il forte attaccamento alla patria. Pino, con mamma istriana di professione maestra e papà originario di Bari, ufficiale della finanza in servizio a Pola, è nato in una famiglia borghese numerosa: era uno dei sei figli della coppia.



“Siamo andati via nel 1946: dovevamo farlo perché Tito prelevava persone innocenti e ragazzi che, uscendo da scuola, venivano incatenati con il fil di ferro e portati nelle foibe (grotte carsiche naturalmente presenti in quei territori che vennero utilizzate come “discarica” per cadaveri civili). Erano legati insieme: si sparava al primo e cadevano tutti. La paura c’era per tutti perché poteva capitare ai genitori, ai fratelli, a me” ha raccontato.



Prima di arrivare a Lecco, Pino è passato dal campo profughi di Taranto. “Siamo dovuti andare via con un piroscafo chiamato Toscana, che provvedeva a caricare tutte le persone: non abbiamo potuto portare niente con noi. Mia mamma e altri sfollati avevano buttato le chiavi in mare. Ci hanno sbarcato a Taranto. Nel campo profughi, c’erano residuati bellici: in riva al mare i miei fratelli più grandi, con le fionde, con le maschere antigas e le bacchette degli ombrelli, andavano in acqua a pescare il pesce, che si mangiava. Passava poi qualche contadino a lasciarci pane, uova, strutto. Dopo 18 mesi, ci hanno dato una casa di 40 metri quadrati: eravamo in 7, oltre a mamma e papà e il cane da caccia. A Taranto, dopo la guerra, c’era miseria: i miei fratelli salirono al nord per una chiamata dell’ufficio di collocamento che aveva bisogno di autisti e qui è cominciata una certa tranquillità economica”.



Con il trattato di pace del 1947 a Parigi, l’Italia ha perso Pola, l’Istria, la Dalmazia. “Non eravamo più padroni delle nostre terre. Siamo stati costretti ad andare via perché non siamo stati difesi. Sono stati 350.000 gli esuli, decine di migliaia gli infoibati. Nessuno ha tenuto memoria delle nostre sofferenze: le risposte sarebbero difficili da spiegare e il non ricordo ha evitato di mettere in luce questi fatti. Non è stato fatto nulla per difenderci perché eravamo ai confini. Volevamo rimanere italiani: non abbiamo accettato il regime di Tito. Quei pochi rimasti hanno fatto la fame. Quando hanno riaperto le frontiere, nel 1958 sono andato con i miei fratelli: in dogana erano armati e ci facevano paura, scoperchiavano la macchina per i controlli. Siamo andati a rivedere le nostre case e mia sorella ha cercato ex compagne di scuola: parlavano solo in croato perché erano obbligati, non perchè volessero”.



La famiglia di Adriano, invece, è fuggita da Capo D’Istria, ma non in un solo viaggio. Ci sono stati tre tentativi. “A Isola d’Istria avevamo una piccola casa: abbiamo venduto tutto e con i soldi ci siamo avviati al confine a Trieste, dove ci attendevano: hanno perquisito mio padre, gli hanno sequestrato i soldi e ci hanno rimandato indietro. I miei genitori hanno dovuto farsi prestare soldi e chiedere una casa perché la nostra era intanto stata occupata. Questo fatto non ha piegato la mia famiglia: dopo sei mesi siamo ripartiti e ci hanno rimandato indietro. Dopo altri trenta giorni, mio padre di notte è riuscito ad attraversare il confine. Non avendo ricevuto notizie brutte, mia madre, con noi figli, ha fatto questo viaggio a Trieste. Da lì siamo stati trasferiti al campo profughi di Cremona”. Grazie a una serie di contatti, la famiglia ha avuto la possibilità di essere destinata a Lecco. “È una cosa terribile quello che abbiamo vissuto - ha detto Adriano -. Sapevo che mio nonno e mio zio erano morti in guerra. Solo nel 2012 mia madre ha avuto il coraggio di dire, con un filo di voce, che erano stati infoibati, a metà strada tra Trieste e Fiume, prima si vergognava. Il pensiero comune è sempre stato che noi avevamo qualcosa di diverso, eravamo colpevoli. Di cosa non lo sappiamo: è qualcosa che uno non può immaginare”.



Adriano ogni anno si reca in Istria. “Sono disperato ogni volta che vado in un negozio e il commesso mi risponde in sloveno. In Slovenia la minoranza è un fastidio, doveva essere eliminata, si doveva estirpare. Poi vado a trovare mio nonno al cimitero di Isola d’Istria: nella parte monumentale si trovano nomi italiani perché era ed è Italia. Il camposanto è una dimostrazione di chi ci abita: oggi riposano, ma prima vivevano gli italiani. L’Istria ha una particolarità: è composta dalla costa, veneziana, e dal centro, slavo. Da sempre c’è stata convivenza, fatta da persone intelligenti. Dopo c’è stata la guerra e ci hanno portato a stare in una condizione d’inferiorità. Il regime jugoslavo aveva l’obiettivo della pulizia etnica per togliere gli italiani e l’italianità delle terre”. Adriano sta portando avanti a Mandello Del Lario, dove oggi risiede, un progetto per i martiri delle foibe e i caduti del dovere, perchè la memoria continui a essere viva su una pagina buia della storia.



“Andare per rimanere, per rimanere italiani - ha concluso -. I miei genitori hanno dovuto firmare, confermare con uno scritto di essere semplicemente italiani”. Stranieri nella propria terra, gli esuli delle terre d’Istria e Dalmazia hanno vissuto un dolore rimasto troppo a lungo nel silenzio. Oggi si impegnano a diffonderlo e l’inno di Mameli, cantato a inizio serata, ha ricordato prima di tutto che nelle loro vene scorre sangue italiano.
M.Mau.
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