Triuggio, IterFestival: Cristina Ricci narra Lidia Poët, la prima avvocatessa d'Italia

Prima avvocata d’Italia e pioniera per l’emancipazione femminile. La storia di Lidia Poët, che spese la sua vita per gli altri e sostenne le battaglie per i diritti delle donne, è raccolta nel saggio scritto da Cristina Ricci. L’autrice è stata ospite del terzo appuntamento di IterFestival, quest’anno dedicato all’universo femminile.

Da sinistra Martina Garancini, Cristina Ricci, Federica Colombo e Lucia Urbano

La rassegna promossa dal Consorzio Brianteo Villa Greppi ha fatto tappa, venerdì 5 maggio, nella sala consiliare del comune di Triuggio dove l’assessore a cultura e pari opportunità Federica Colombo ha accolto il pubblico con queste parole: “La lettura ci porta in altri mondi. Nel mio caso, ha il potere di rilassarmi, di allontanarmi dalla quotidianità, di immedesimarmi nel personaggio e questo mi diverte. È un modo per tenere la mente aperta. L’argomento di quest’anno riguarda una tematica molto attuale. Io sono donna e sono pari agli altri. Trovo che sottolineare queste cose sia una grande sconfitta per il genere umano. Mi piacerebbe invece che tutte le donne possano acquisire un’autostima sufficiente per non consentire a nessuno di essere sminuite, da nessuno e in nessuna circostanza”. A rimarcare l’importanza dell’argomento che accompagna la rassegna di quest’anno è stata la presidente del consorzio Villa Greppi Lucia Urbano: “Non vogliamo che si parli di donne solo nelle ricorrenze, come l’8 marzo o il 25 novembre. Nella rassegna conosceremo un universo femminile sterminato, dalle donne realmente esistite a quelle create nella finzione”.

La parola è quindi passata all’ottima moderatrice Martina Garancini de Lo Sciame Libri di Arcore che, offrendo molteplici spunti di riflessione e abbracciando la questione di genere con interventi extra testuali, ha permesso all’ospite di far conoscere una donna, ancora poco nota, ma con un temperamento così forte - nonostante l’apparente timidezza - da battersi per rivendicare i diritti delle donne, in una società di fine Ottocento che non permetteva loro l’accesso. La stessa Poët ha vissuto sulla propria pelle questa chiusura: nel 1883 le viene infatti negato di praticare la professione forense, in quanto donna.

Nacque a Perrero nel 1855 da un’agiata famiglia valdese che le ha consentito una solida formazione culturale e mentale, trasmettendole un grande amore per la cultura, tanto che Lidia dirà: “Sono nata per studiare, non ho mai fatto altro e, se rinascessi, non farei altro”. Con gli studi in Svizzera, ottiene l’abilitazione per diventare maestra ma, ormai orfana al suo rientro in Italia, convince la famiglia a proseguire gli studi. Il fratello Enrico, avvocato, aveva già uno studio avviato, quindi si propende per una laurea in giurisprudenza.

L’autrice Cristina Ricci

“Quando è arrivata il primo giorno in aula, le viene chiesto se vuole un banco o una sedia a parte ma lei rifiuta. Dice che fu interrogata più spesso rispetto ai suoi compagni, ma al momento della proclamazione c’erano 500 studenti ad applaudirla” ha ricordato Cristina Ricci. Lidia si laurea a pieni voti, conclude i due anni di praticantato e chiede l’iscrizione all’albo degli avvocati di Torino: davanti a questa richiesta, l’ordine si spacca tra favorevoli e contrari. Due avvocati oppositori si dimettono dall’albo e cominciano la loro azione diffamatoria nei confronti della donna. La richiesta finisce in tribunale e, nella sentenza di rigetto della corte d’appello, non vengono citati riferimenti normativi: Lidia è infatti in possesso dei requisiti per esercitare la professione forense. “Vengono elencati una serie di stereotipi, come la poca lucidità della donna, il fatto che sarebbe disdicevole vedere gli abiti bizzarri della moda femminile sotto la toga e che la giustizia sarebbe messa in discussione se un giudice avesse dato ragione alla leggiadra avvocata. La sentenza si chiude così: le donne non possono esercitare l’avvocatura, punto”. Lidia Poët ricorre ma la Cassazione confermerà la linea della corte d’appello e, a 28 anni, la donna si ritroverà esclusa dall’adesione all’albo. Riuscirà ad iscriversi all'Ordine degli Avvocati di Torino solo nel 1920, quando in Italia viene consentito alle donne di esercitare la professione.

Lei si definisce sempre avvocata o avvocatessa e la sua tesi aveva come oggetto il voto alle donne, a cui non era favorevole. A suo giudizio, prima di concederlo, bisognava fare in modo che le donne iniziassero ad esistere socialmente e potessero compiere scelte, come quella del diritto di voto, in piena autonomia, senza le imposizioni del sesso maschile. Alla fine dell’Ottocento era infatti in vigore l’istituto giuridico dell’autorizzazione marietale (le donne sposate perdevano la capacità giuridica) ed era dominante la concezione patriarcale dell’ibecillitas sexus, secondo la quale le donne erano considerate anche fisiologicamente inferiori al sesso maschile.

“Conclusa la vicenda dell’esclusione dall’avvocatura, Lidia inizia a occuparsi di temi sociali, seguendo il valore della filantropia insegnatole nelle chiesa valdese. Parla diverse lingue, viaggia in Europa e spende la sua vita per 30 anni nei congressi penitenziari internazionali, dove ottiene stima, riconoscimento e persino un’onorificenza pari al cavalierato italiano - ha proseguito Ricci - Inizia a riflettere sul valore della pena: la detenzione, per lei, è un lasso di tempo in cui intervenire sulla riabilitazione del reo. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale sceglie diventa Infermiera Volontaria nel corpo della Croce Rossa Italiana”.
Lidia, nonostante le fosse stato negato il diritto a svolgere la professione che aveva scelto, ha speso la vita al servizio di altri e per rivendicare i diritti di non aveva voce: i detenuti, le donne e i minori.

Alla prima avvocatessa d’Italia è stata dedicata una serie televisiva, che l’autrice del libro definisce come una “seconda violenza, quella della memoria”. Questo deve farci ancora riflettere sul ruolo della donna nella nostra società, a distanza di oltre un secolo dal suo impegno per rivendicarne i diritti: “Ci manca la capacità di leggere la nostra società e di fare proposte altrettanto innovative come facevano le donne di fine Ottocento - ha commentato Cristina Ricci - Lo hanno portato avanti rivendicazioni talmente all’avanguardia che hanno impiegato 40 anni a essere inserite nell’ordinamento giuridico, ma noi non abbiamo una visione del nostro cambiamento. Siamo ancora a dipanarci nelle rivendicazioni delle nostre nonne, ma non abbiamo una nostra eredità per i nostri figli. Vediamo ad esempio la discussione dell’utero in affitto: ne parliamo nelle nostre case, ma nessuna si espone”.

Ci sono ancora grandi battaglie da combattere per la parità di genere. Le donne non devono gettare la spugna e trarre spunto da una frase della tesi di Lidia Poët: “Solo unendo le capacità degli uni a quelle della altre, si può avere società migliore”.
M.Mau.
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