Nibionno: l’India da nord a sud di Valerio, la città utopica e il fiume sacro inquinato


Quando lo abbiamo intervistato lo scorso gennaio, non era neanche a metà del suo viaggio nel sud est asiatico, probabilmente era a metà solo della sua prima tappa: l'India (CLICCA QUI). Barba piena e abiti rilassati, Valerio Rigamonti è tornato lo scorso giugno dal suo viaggio itinerante in India, Vietnam, Thailandia, Laos e Cambogia. Dopo la nostra intervista mentre si trovava nel villaggio di Anjuna, sulla costa di Goa Nord, il nibionnese si è trasferito per qualche giorno in una farm (una fattoria con qualche animale e una piantagione) a Mangalore, dove, grazie alla piattaforma "Workaway", ha potuto ricevere vitto e alloggio in cambio di qualche ora al giorno lavorata tra le piantagioni di cocco. "Il proprietario era un ingegnere informatico che ha lasciato il suo lavoro per dedicarsi alla sua farm.

La zona in cui Valerio ha dormito nella farm

Quando usi Workaway lo fai anche con l'obiettivo di chiacchierare con la persona che ti ospita, lui era un po' scorbutico e militare sul lavoro, quindi alla fine non sono rimasto molto. Quello che mi ricorderò di questa esperienza è il materassino su cui ho dormito, alto due centimetri e buttato a terra in uno stanzone enorme e sporchissimo: per la prima volta da quando ero arrivato in India non dormivo in un letto", ha raccontato Valerio. Intanto i giorni scorrevano, i modi di fare italiani ed europei perdevano rilevanza e quelli indiani tracciavano il percorso delle sue tappe successive: "a un certo punto nello stato del Kerala mi sono reso conto di essere diventato ‘indiano', avevo preso un treno notte senza sapere dove sarei arrivato, dove avrei alloggiato e per quanto sarei rimasto a differenza del solito dove almeno il giorno prima qualcosa prenotavo. Andavo avendo fiducia nel fatto che in qualsiasi modo me la sarei cavata improvvisando. Prima di quel momento mi facevo prendere dall'ansia e prenotavo sempre tutto in anticipo", ha ricordato Valerio, prima di ricostruire a parole quello che per lui è lo stato più bello dell'India.

 

Il Tamil Nadu occupa gran parte dell'estrema punta sud del Paese, qui, nel paesino di Palamedu, vicino alla città di Madurai, Valerio assiste alla tradizionale manifestazione dello "Jallikattu". In concomitanza con la festa del raccolto e nonostante sia stata proibita dal governo centrale, questa festa vede tori imbizzarriti correre per la via centrale della città e uomini audaci cercare di aggrapparsi alla gobba della loro schiena per cercare di stare avvinghiati quanti più secondi riescono, sperando nel frattempo di dimostrare la loro virilità al pubblico femminile. "La cosa buffa è che molti dei premi sono sedie di plastica, ceste di metallo con del cibo o mixer che vengono lanciati dal primo piano di un'impalcatura in legno, esattamente sopra la porta da cui escono i tori. Quindi gli uomini devono cercare di prendere il loro premio, senza farsi nel frattempo uccidere da un toro arrabbiato", ha raccontato Valerio, trovando assurda la possibilità di poter perdere la propria vita in cambio di così poco. Durante questa festa folkloristica, il giovane nibionnese vive in prima persona il "privilegio di avere la pelle bianca" in un Paese in cui essere bianco ti apre porte e regala opportunità: "uno dei tantissimi militari che presidiavano la festa ha visto me e il mio amico Gabriele in piedi e ci ha scortati all'interno di una tribuna coperta. Nelle tribune normali un biglietto costava 500 rupie; noi non avevamo prenotato né pagato". Nonostante i feriti e un morto di 26 anni confermato da un articolo sulla stampa locale, su un'ambulanza ferma per soccorrere i feriti campeggiava la scritta "We want more Jallikattu" ("vogliamo più Jallikattu"), "che scritto sulla lamiera dell'ambulanza è paradossale".

Il viaggio di Valerio prosegue, ma prima di arrivare alla tappa successiva, come in un qualsiasi romanzo di formazione, gli si parano davanti gli antagonisti, per la precisione alcuni cani randagi, tanto mansueti di giorno perché tramortiti dal caldo, quanto affamati e vigili di notte; gli si avvicinano, ringhiano e intralciano il suo cammino: "prima di arrivare a Pondicherry, tra il punto in cui il pullman mi aveva lasciato e il mio ostello c'erano quattro chilometri che ho fatto a piedi alle tre del mattino. Penso che questo sia stato uno dei pochi momenti in cui ho avuto davvero paura, tanto da fermarmi in strada quando i cani diventavano tanti e le strade troppo strette. Alcune donne mi hanno aiutato a farmi strada, scacciando i cani con bastoni e scope, fino a quando una moto si è accostata e mi ha dato un passaggio per due chilometri". Non è Pondicherry, però, la vera meta del viaggiatore nibionnese, che arrivato all'ostello si interessa ad Auroville, un villaggio utopico fondato nel 1968 dalla francese Mirra Alfassa, devota collaboratrice spirituale di Sri Autobindo, filosofo indipendentista e guru indiano. Auroville è, o forse doveva essere, un villaggio autosufficiente che crescesse al di fuori della società tradizionale e avesse proprie regole. L'obiettivo era arrivare a 50 mila abitanti, oggi, a più di cinquant'anni dalla sua fondazione, se ne contano solamente tremila. "È un luogo strano; per vivere ad Auroville devi fare una richiesta speciale e solo coloro che fanno già parte di questa comunità possono decidere se accettarti o meno. Visto da fuori assomiglia molto a un campeggio: ci sono tante casette dove puoi fare yoga, meditazione, ricerca e così via", ha ricordato Valerio, che nel villaggio di ascendenza francese ha avuto la sensazione che le persone internazionali che vi abitavano non gli stessero raccontando tutta la storia. "La sensazione che ho avuto era sempre di sospetto. Forse perché le premesse con cui era nato quel luogo erano state disattese, nonostante si respirasse ancora un'aura che richiamava l'eco del vivere in un'isola indipendente e felice. Al centro di questa città c'era una palla gigante dorata che conteneva al suo interno una camera di meditazione. Mandavi una e-mail, facevi richiesta e ti davano il permesso di visitarla solo per quindici minuti. Ricevono fondi da diversi enti europei e statunitensi, sono arrivato a pensare che sotto potessero nascondere qualcosa".

A questo punto, Valerio lascia il sud dell'India, il Tamil Nadu e la natura incontaminata per ritornare a nord, a Varanasi per la precisione, "una delle città più sacre dell'India se non la più sacra", prima di prendere un volo diretto a Bangkok. Qui arrivano indiani da ogni dove, si fanno il bagno nel fiume sacro, si lavano con il sapone, gettano rifiuti lungo il suo corso, adagiano candele durante un rito che poi finiranno inesorabilmente sul fondo: "la cosa strana in India è che sono tanto religiosi e spirituali, ma non si prendono veramente cura della natura che li circonda e la inquinano. Mi ha dato proprio l'impressione che non ne avessero coscienza, un po' come in Europa prima che si sviluppasse una responsabilità sostenibile collettiva", ha spiegato Valerio. A Varanasi assiste a uno dei riti religiosi induisti, l'ultimo a cui va incontro un credente nel corso della sua vita: la cremazione. Lungo il Gange ci sono alcuni gradini dotati di postazioni su cui bruciare i corpi dei defunti che arrivano a Varanasi da ogni angolo dell'India, questi, a seconda della casta di appartenenza, vengono posizionati sul gradino corrispondente, dal più basso al più alto, dal meno degno al più degno. Bagnato nel Gange, il corpo viene posto tra due cumuli di legno, uno sotto e uno sopra il corpo. Il fuoco millenario e sacro viene preso dal monaco che a questo punto accende il rogo; al termine del procedimento, la salma o quanto è rimasto viene gettata nel fiume. Gli unici a non venire bruciati perché già puri sono i bambini e le donne incinta, il cui corpo viene accolto intero dalle acque del fiume sacro. Valerio, mentre assisteva a questo rito che veniva ripetuto all'infinito, su gradini diversi e a tutte le ore del giorno, si è guardato attorno e ha notato che oltre a qualche familiare, quella cerimonia così intima e profonda era sotto agli occhi di tutti, tanto che alcuni tiravano fuori con noncuranza il proprio cellulare per scattare qualche foto: "gli indiani mischiano sempre le cose, anche nei templi trovi banchetti che vendono cibo come se fosse la cosa più normale del mondo. Non c'è una reale differenza tra sacro e profano, soprattutto se paragonato al rito funerario occidentale e Cristiano, più intimo e privato. Quella indiana è una cultura diversa che predilige un rito collettivo. Non credo che ai parenti dei defunti facesse piacere essere fotografati in un momento così, ma India il concetto di privacy viene meno, forse anche per la quantità di persone che ci vivono".
Valerio lascia così l'India, lo stato più difficile di quelli visitati, il primo, il più affollato, il più sporco, il più sacro, il più strano; alla volta di paesi dilaniati da una dominazione difficile o gentili al limite dello stucchevole. Un concentrato di tradizioni, volti nuovi, rispetto manifesto e solitudine inalata a pieni polmoni, che non abbiamo ancora finito di raccontare.

Credit photo: Valerio Rigamonti

Martina Bissolo
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