Monticello: omicidi, confronto tra necessità investigative e cronaca giornalistica
Gli omidici e i fatti di cronaca nera: un confronto tra le necessità investigative e quelle giornalistiche. Alessio Carparelli, comandante provinciale dei Carabinieri di Lecco e il giornalista di cronaca nera e giudiziaria Piero Colaprico, moderati dal collega Paolo Moretti, hanno dibattuto sul tema, all’interno del festival di narrativa poliziesca in corso questo fine settimana a Villa Greppi di Monticello, ''La passione per il delitto''.
Il colonnello Carparelli ha messo in evidenza i due mondi, non sempre comunicanti: quello dell’informazione, della necessità di informare la comunità e quello del riserbo investigativo e persino del timore del pregiudizio alle indagini.
''Il riserbo investigativo è la necessità di tutelare le persone coinvolte: spesso non c’è la certezza di aver individuato la persona e c’è il tema legato alla privacy, alla dignità di persone che sono riconosciute o riconoscibili per un delitto. L’altro tema riguarda l’operato della polizia giudiziaria inerente il pregiudizio che l’informazione che esce potrebbe arrecare alle indagini. Parlare oggi di fatti consolidati, farlo a caldo quando vi è la necessità urgente di raccontare al pubblico quello che sta accadendo per diritto di cronaca, non è sempre facile. Non è facile per noi per questioni sottoposte al riserbo, ma non è facile neanche al contrario. Una cosa che ho imparato dai giornalisti è che puoi blindare come vuoi un fatto, ma qualcosa uscirà sempre, quindi occorre capire cosa dare e quando darlo, cercando di essere sicuri che non rappresenti un danno''.
Si è quindi parlato di come negli ultimi anni il rapporto tra stampa e polizia giudiziaria si sia modificato e di come il rapporto di fiducia tra esigenze investigativa e giornalistica inevitabilmente abbia un perimetro, per entrambi.
''C’è un tratto, quello etico, che in questi casi non può essere sottovalutato e mi riferisco alla scelta investigativa quanto alla divulgazione'' ha aggiunto Carparelli. ''Si tratta della necessità di tenere nascosti abitudini private che nulla c’entrano con il delitto. Questo è un confine che in qualche misura dobbiamo tracciare: sicuramente una norma che tuteli in qualche modo la privacy della persona può essere utile al fine di non divulgare atteggiamenti e abitudini che non hanno rilevanza sul piano investigativo e che invece per il giornalista sono area di interesse perché questo colpisce la persona e la famiglia''.
I modi di fare cronaca nera sono cambiati, come ha ricordato lo stesso Piero Colaprico. ''Fino agli ’90, quando non c’era ancora il DNA, capitava che il giornalista arrivasse poco dopo o prima delle forze dell’ordine. Avevamo un altro tipo di operatività che ci portava a chiedere qualsiasi tipo di informazione. Questo non ha mai portato problemi, fino a quando si è deciso di preservare la scena del crimine: oggi si mette il nastro bianco-rosso e i giornalisti sono tenuti a 150 metri del fatto e il rapporto non è più diretto, bensì è diventato mediato dal telefonino e dalle conoscenze. Noi oggi, quando ci troviamo in un caso di omicidio, abbiamo una serie di sovrastrutture che sono queste leggi, come la riforma Cartabia, che stabilisce che deve parlare solo il procuratore capo. Quando noi ci troviamo dentro la realtà, questa è completamente diversa e sinora non ho mai trovato rimedio''.
Colaprico è anche intervenuto sulla questione del rapporto di fiducia: ''Il tema della buonafede è fondamentale e possiamo essere rispettosi delle indagini. Se io ho fiducia nel colonnello e lui ha fiducia in me, non siamo amici ma è un rapporto professionale rigoroso nel quale la fiducia è in gioco. L’etica perde rispetto al fatto che dobbiamo fare il nostro. La prima etica del giornalista è avere la notizia e rispetto alla notizia non guardi in faccia nessuno. Ci muoviamo su un terreno sdrucciolevole, delicato e faticoso e questi dibattiti servono ad ognuno di noi per compiere una riflessione''.
Il colonnello Carparelli ha messo in evidenza i due mondi, non sempre comunicanti: quello dell’informazione, della necessità di informare la comunità e quello del riserbo investigativo e persino del timore del pregiudizio alle indagini.
''Il riserbo investigativo è la necessità di tutelare le persone coinvolte: spesso non c’è la certezza di aver individuato la persona e c’è il tema legato alla privacy, alla dignità di persone che sono riconosciute o riconoscibili per un delitto. L’altro tema riguarda l’operato della polizia giudiziaria inerente il pregiudizio che l’informazione che esce potrebbe arrecare alle indagini. Parlare oggi di fatti consolidati, farlo a caldo quando vi è la necessità urgente di raccontare al pubblico quello che sta accadendo per diritto di cronaca, non è sempre facile. Non è facile per noi per questioni sottoposte al riserbo, ma non è facile neanche al contrario. Una cosa che ho imparato dai giornalisti è che puoi blindare come vuoi un fatto, ma qualcosa uscirà sempre, quindi occorre capire cosa dare e quando darlo, cercando di essere sicuri che non rappresenti un danno''.
Si è quindi parlato di come negli ultimi anni il rapporto tra stampa e polizia giudiziaria si sia modificato e di come il rapporto di fiducia tra esigenze investigativa e giornalistica inevitabilmente abbia un perimetro, per entrambi.
''C’è un tratto, quello etico, che in questi casi non può essere sottovalutato e mi riferisco alla scelta investigativa quanto alla divulgazione'' ha aggiunto Carparelli. ''Si tratta della necessità di tenere nascosti abitudini private che nulla c’entrano con il delitto. Questo è un confine che in qualche misura dobbiamo tracciare: sicuramente una norma che tuteli in qualche modo la privacy della persona può essere utile al fine di non divulgare atteggiamenti e abitudini che non hanno rilevanza sul piano investigativo e che invece per il giornalista sono area di interesse perché questo colpisce la persona e la famiglia''.
I modi di fare cronaca nera sono cambiati, come ha ricordato lo stesso Piero Colaprico. ''Fino agli ’90, quando non c’era ancora il DNA, capitava che il giornalista arrivasse poco dopo o prima delle forze dell’ordine. Avevamo un altro tipo di operatività che ci portava a chiedere qualsiasi tipo di informazione. Questo non ha mai portato problemi, fino a quando si è deciso di preservare la scena del crimine: oggi si mette il nastro bianco-rosso e i giornalisti sono tenuti a 150 metri del fatto e il rapporto non è più diretto, bensì è diventato mediato dal telefonino e dalle conoscenze. Noi oggi, quando ci troviamo in un caso di omicidio, abbiamo una serie di sovrastrutture che sono queste leggi, come la riforma Cartabia, che stabilisce che deve parlare solo il procuratore capo. Quando noi ci troviamo dentro la realtà, questa è completamente diversa e sinora non ho mai trovato rimedio''.
Colaprico è anche intervenuto sulla questione del rapporto di fiducia: ''Il tema della buonafede è fondamentale e possiamo essere rispettosi delle indagini. Se io ho fiducia nel colonnello e lui ha fiducia in me, non siamo amici ma è un rapporto professionale rigoroso nel quale la fiducia è in gioco. L’etica perde rispetto al fatto che dobbiamo fare il nostro. La prima etica del giornalista è avere la notizia e rispetto alla notizia non guardi in faccia nessuno. Ci muoviamo su un terreno sdrucciolevole, delicato e faticoso e questi dibattiti servono ad ognuno di noi per compiere una riflessione''.
M.Mau.