Oggiono: vittima e testimone di violenza Valentina Pitzalis si racconta agli studenti
Le parole possono essere violenza. Le botte sono una forma di violenza visibile, riconoscibile. Le parole possono essere manipolazione psicologica: non una forma tangibile, ma subodola, nascosta ad occhi esterni, ma anche a noi stessi. Come l’acqua che, con il tempo, riesce a modellare la roccia fino a trasformarla.
Valentina Pitzalis si è annullata per quell’uomo, il marito, che diceva di amarla. Non era amore. Era possesso, gelosia, ossessione. Altre parole, un altro significato.
L’incontro che si è tenuto lunedì 20 novembre al PalaBachelet ha visto in platea gli studenti degli istituti Bachelet di Oggiono, Bertacchi di Lecco e Greppi di Monticello. Tutti i giovani - alcuni dei quali con segni rossi sul volto - sono rimasti in rigoroso silenzio ad ascoltare la testimonianza dell'ospite, vittima e testimone per la lotta contro la violenza di genere, accolta con un fragoroso applauso.
L’iniziativa si inserisce in un fitto programma promosso dall’istituto Bachelet nella settimana in cui cade la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne (25 novembre), come ha ricordato in apertura la dirigente scolastica Anna Panzeri. ''Apriamo una settimana molto intensa non perché la tematica debba essere circoscritta a sette giorni ma perché ci sono momenti in cui è necessario fermarsi a riflettere e ascoltare la testimonianza di Valentina. Queste occasioni ribadiscono quanto è importante come dire no, denunciare comportamenti morbosi, possessivi. Mi auguro che l’incontro sia un buon inizio per rivedere il nostro modo di vivere le relazioni''.
La mattinata, proposta nell’ambito della linea di intervento ''A scuola contro la violenza sulle donne'', biennio scolastico 2021/2022 e 2022/2023 finanziata da Regione Lombardia, ha visto proiettare un video messaggio con i saluti di Arianna Alessi, vicepresidente di Only the brave (OTB) Foundation che si occupa di problematiche legate ai giovani, sia di violenza sulle donne che di relazioni. Giusy Laganà, segretario generale di Fare X Bene ETS e membro dell’Advisory Board di ''generazioni connesse'', progetto coordinato dal Ministero dell’Innovazione e del Merito, ha sin da subito fatto riferimento al fatto di cronaca attuale, quello di Giulia Cecchettin, la giovane studentessa assassinata dal ragazzo che frequentava ancora dopo la rottura della relazione.
''Questo incontro si intitola ''mai più'' perché vorremmo non vi fossero più storie come quella di Giulia e non vorremmo che se ne parlasse solo il 25 novembre. In questi giorni, quando avvengono atti e tragedie come quelle di Giulia, stiamo sentendo affermazioni sbagliate e inesatte. L’affermazione più sbagliata è ''ti amo da morire'' perché io vorrei essere amata da vivere, in maniera rispettosa e che sia una relazione che mi faccia crescere''.
105 sono i nomi delle donne che ad oggi sono state uccise dall’uomo che diceva di amarle: spesso quella persona è tra noi, tra le mura domestiche. ''Una donna ogni tre giorni viene uccisa. Crediamo che questo fenomeno non sia un problema solo di uomini o donne, ma di tutti. È successa una tragedia e ci dovremmo indignare: la risposta parte da qui, da chi come Valentina racconta la sua storia e fa risuonare i campanelli di allarme''.
Valentina Pitzalis, che porta sul corpo i segni di un rapporto malato, è chiara sin dall’inizio: ''La storia di cui vi parlo, che accomuna me a tantissime altre donne, non ha niente a che vedere con l’amore. Si parla di possesso, gelosia patologica, umiliazioni, violenza fisica, psicologica, economica, verbale. L’amore invece è crescita, rispetto e fiducia. Il mio è un rapporto malato che ha seguito il ciclo della violenza: all’inizio succede che ti innamori e vivi il cosiddetto periodo della luna di miele''.
Lui, giovane di 22 anni, corteggia a lungo Valentina, una bella ragazza sarda dai lunghi capelli neri: lei in quel periodo sta frequentando un altro ragazzo ma il futuro marito non cede fino a conquistarla. Nonostante fossero poco più che ragazzi, senza un lavoro sicuro, si sposano con un rito civile per suggellare e rendere pubblica ''l’unione delle due anime''. Nei primi sei mesi, tutto è bello e i due giovani vogliono stare continuamente insieme.
Le continue attenzioni di lui, con il passare dei mesi, diventano sempre più insistenti. ''Nei tre anni di matrimonio ero inconsapevole di quello che stavo subendo. Non conoscevo altre forme di violenza, se non quella fisica, da cui all’epoca ci mettevano in guardia. É la più facile da riconoscere, anche se non è semplice uscire nemmeno da quel meccanismo – ha raccontato Valentina – La violenza psicologica che ho subito io è diversa''.
''A scuola non c’erano stati incontri come questo, nessuno aveva messo in guardia dai segnali. Questo perchè la narrazione dell’amore è sbagliata: ci viene insegnato che l’amore è sofferenza, che bisogna fare sacrifici, cambiare. Cadiamo in questi rapporti malati e confondiamo il possesso, il controllo, la gelosia patologica per una semplice gelosia. Io non sono una persona gelosa perché baso i miei rapporti interpersonali su rispetto e fiducia. Sbagliando, credevo che le cose fossero così. In queste relazioni le prime cose che vengono a mancare sono proprio il rispetto e la fiducia. Nel matrimonio non c’è mai stata violenza fisica, ma lunghe liti verbali. Non vedevo la violenza, il pericolo: non solo non avevo gli strumenti, ma ho sbagliato perché accondiscendevo'' ha proseguito.
Valentina ha poi spiegato l’escalation morbosa del rapporto, che porta in primo luogo all’isolamento della vittima fino al completo annullamento della persona. ''Mi sono tolta i tacchi, ho smesso di truccarmi e di indossare le gonne. Era il 2006: per lui sarebbe stato inconcepibile che io mi iscrivessi ai social network, dato che mi aveva chiesto di cambiare il numero di cellulare e guardava chi mi scrivesse perché pensava avessi un altro. Non potevo nemmeno parlare con i miei genitori da sola. Lui era con me 24 ore su 24: vivevamo nella casa dei suoi genitori e loro erano all’oscuro di tutto. Ero una ragazza semplice, che credeva di dimostrare l’amore privandosi e facendosi privare della libertà. Anche se accondiscendi, ai manipolatori affettivi non basta mai perché il problema sono loro stessi. Io però non percepivo la paura, non capivo che le parole fanno più male delle botte''.Valentina ha proseguito il racconto descrivendo episodi inquietanti come ''il rituale della notte quando lui chiudeva la porta della stanza e nascondeva le chiavi, bloccava la finestra, spostava la scrivania e il divano contro la porta e buttava sul pavimento dei sacchi di plastica pensando che, in caso scappassi, avrebbe sentito il rumore dei miei passi''.
Il controllo ossessivo non riguardava solo la notte, ma la quotidianità. Valentina era costretta a fare il bagno e ad asciugarsi i capelli con le finestre chiuse e, quando lui usciva di casa, lei veniva chiusa a chiave in una stanza con un registratore attivo.
''Questa era ossessione, paranoia, controllo. Poi ho iniziato a dire no: erano ore di insulti, liti, musi e pianti e lui mi prendeva per sfinimento. Il mio punto di non ritorno è stato quando la relazione è finita – ha proseguito – Lui è caduto nell’abuso di psicofarmaci e, a seguito di una lite, ha confessato di avermi tradita con una prostituta. Quel giorno ci siamo lasciati ma come in tutti i rapporti di dipendenza è difficile fare tutto da un giorno all’altro e quindi decidiamo di separarci lentamente''.
Valentina intanto riprende in mano la vita: si iscrive alle scuole superiori e si diploma, esce con gli amici, viaggia, trova un lavoro e si rende autonoma. Mentre lei risaliva dalla fine della storia, lui andava sempre più in basso. Con una menzogna, l’attira a casa e, dopo aver cercato di trattenerla, le getta del liquido addosso.
Il racconto si fa drammatico. ''Mi sono spaventata quando ho sentito l’odore perché lì ho capito che stava succedendo qualcosa di brutto. Ho cercato di fare una chiamata di aiuto, ma tremavo e non sono riuscita''. Sono attimi, ma concitati. ''Ho buttato il telefono e mi sono ritrovata lui a un centimetro dalla mia faccia: non dimenticherò mai i suoi occhi. Non era più lo stesso: sembrava un demonio. Gli ho detto che fai: lui risponde ''ora lo vedi'' e mi ha dato fuoco. Non c’è stato nessun raptus, come si racconta nelle narrazioni. Descrivere questi uomini come bestia, animali è l’ennesimo modo per cercare di togliere loro qualche responsabilità. Ho iniziato a prendere fuoco e dicevo che mi faceva male, ma lui ha chiuso la porta''.
Il fuoco ha iniziato ad avvolgere Valentina che è sempre stata lucida e non ha mai perso i sensi. ''Il dolore era talmente atroce che volevo morire, ma non succedeva niente. Sentivo lo scoppiettio del fuoco, ma quello che respiravo era la mia essenza. L’istinto di sopravvivenza era così forte che ho iniziato a battere i piedi sul pavimento, a urlare: dopo che è scoppiato un vetro, qualcuno ha sentito e sono stati chiamati i soccorsi''.
Sulla scena, i soccorritori hanno trovato un cadavere e la donna ustionata: lui, come attesterà l’autopsia, è morto per ipossia, mentre la vita di Valentina rimarrà appesa a filo per sei mesi. Il suo corpo presenta ustioni di terzo grado e ha dovuto subire interventi, compreso quello, ancora più traumatico per lei, dell’amputazione della mano. La sua vita è cambiata per sempre e ora si batte perché questi legami malati possano essere riconosciuti al primo allarme. Mentre narra la sua storia, si ferma e viene aiutata a ripartire, a riprendere il filo. Il dolore che ha vissuto è troppo grande: per lei è come estraniarsi e raccontare la storia di un’altra persona. E lo è. Valentina Pitzalis, la giovane ragazza sarda dai lunghi capelli neri che i ragazzi facevano a gara a corteggiare, non c’è più. Oggi c’è una ragazza con il volto sfigurato e senza una mano, ma determinata, che gira l’Italia per portare il suo messaggio: mai più. Mai più come a lei, sopravvissuta all’orrore. Dicevamo in apertura che le parole possono essere violenza. Le parole possono anche salvare. Come quella di Valentina.
Valentina Pitzalis si è annullata per quell’uomo, il marito, che diceva di amarla. Non era amore. Era possesso, gelosia, ossessione. Altre parole, un altro significato.
L’incontro che si è tenuto lunedì 20 novembre al PalaBachelet ha visto in platea gli studenti degli istituti Bachelet di Oggiono, Bertacchi di Lecco e Greppi di Monticello. Tutti i giovani - alcuni dei quali con segni rossi sul volto - sono rimasti in rigoroso silenzio ad ascoltare la testimonianza dell'ospite, vittima e testimone per la lotta contro la violenza di genere, accolta con un fragoroso applauso.
L’iniziativa si inserisce in un fitto programma promosso dall’istituto Bachelet nella settimana in cui cade la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne (25 novembre), come ha ricordato in apertura la dirigente scolastica Anna Panzeri. ''Apriamo una settimana molto intensa non perché la tematica debba essere circoscritta a sette giorni ma perché ci sono momenti in cui è necessario fermarsi a riflettere e ascoltare la testimonianza di Valentina. Queste occasioni ribadiscono quanto è importante come dire no, denunciare comportamenti morbosi, possessivi. Mi auguro che l’incontro sia un buon inizio per rivedere il nostro modo di vivere le relazioni''.
La mattinata, proposta nell’ambito della linea di intervento ''A scuola contro la violenza sulle donne'', biennio scolastico 2021/2022 e 2022/2023 finanziata da Regione Lombardia, ha visto proiettare un video messaggio con i saluti di Arianna Alessi, vicepresidente di Only the brave (OTB) Foundation che si occupa di problematiche legate ai giovani, sia di violenza sulle donne che di relazioni. Giusy Laganà, segretario generale di Fare X Bene ETS e membro dell’Advisory Board di ''generazioni connesse'', progetto coordinato dal Ministero dell’Innovazione e del Merito, ha sin da subito fatto riferimento al fatto di cronaca attuale, quello di Giulia Cecchettin, la giovane studentessa assassinata dal ragazzo che frequentava ancora dopo la rottura della relazione.
''Questo incontro si intitola ''mai più'' perché vorremmo non vi fossero più storie come quella di Giulia e non vorremmo che se ne parlasse solo il 25 novembre. In questi giorni, quando avvengono atti e tragedie come quelle di Giulia, stiamo sentendo affermazioni sbagliate e inesatte. L’affermazione più sbagliata è ''ti amo da morire'' perché io vorrei essere amata da vivere, in maniera rispettosa e che sia una relazione che mi faccia crescere''.
105 sono i nomi delle donne che ad oggi sono state uccise dall’uomo che diceva di amarle: spesso quella persona è tra noi, tra le mura domestiche. ''Una donna ogni tre giorni viene uccisa. Crediamo che questo fenomeno non sia un problema solo di uomini o donne, ma di tutti. È successa una tragedia e ci dovremmo indignare: la risposta parte da qui, da chi come Valentina racconta la sua storia e fa risuonare i campanelli di allarme''.
Valentina Pitzalis, che porta sul corpo i segni di un rapporto malato, è chiara sin dall’inizio: ''La storia di cui vi parlo, che accomuna me a tantissime altre donne, non ha niente a che vedere con l’amore. Si parla di possesso, gelosia patologica, umiliazioni, violenza fisica, psicologica, economica, verbale. L’amore invece è crescita, rispetto e fiducia. Il mio è un rapporto malato che ha seguito il ciclo della violenza: all’inizio succede che ti innamori e vivi il cosiddetto periodo della luna di miele''.
Lui, giovane di 22 anni, corteggia a lungo Valentina, una bella ragazza sarda dai lunghi capelli neri: lei in quel periodo sta frequentando un altro ragazzo ma il futuro marito non cede fino a conquistarla. Nonostante fossero poco più che ragazzi, senza un lavoro sicuro, si sposano con un rito civile per suggellare e rendere pubblica ''l’unione delle due anime''. Nei primi sei mesi, tutto è bello e i due giovani vogliono stare continuamente insieme.
Le continue attenzioni di lui, con il passare dei mesi, diventano sempre più insistenti. ''Nei tre anni di matrimonio ero inconsapevole di quello che stavo subendo. Non conoscevo altre forme di violenza, se non quella fisica, da cui all’epoca ci mettevano in guardia. É la più facile da riconoscere, anche se non è semplice uscire nemmeno da quel meccanismo – ha raccontato Valentina – La violenza psicologica che ho subito io è diversa''.
''A scuola non c’erano stati incontri come questo, nessuno aveva messo in guardia dai segnali. Questo perchè la narrazione dell’amore è sbagliata: ci viene insegnato che l’amore è sofferenza, che bisogna fare sacrifici, cambiare. Cadiamo in questi rapporti malati e confondiamo il possesso, il controllo, la gelosia patologica per una semplice gelosia. Io non sono una persona gelosa perché baso i miei rapporti interpersonali su rispetto e fiducia. Sbagliando, credevo che le cose fossero così. In queste relazioni le prime cose che vengono a mancare sono proprio il rispetto e la fiducia. Nel matrimonio non c’è mai stata violenza fisica, ma lunghe liti verbali. Non vedevo la violenza, il pericolo: non solo non avevo gli strumenti, ma ho sbagliato perché accondiscendevo'' ha proseguito.
Valentina ha poi spiegato l’escalation morbosa del rapporto, che porta in primo luogo all’isolamento della vittima fino al completo annullamento della persona. ''Mi sono tolta i tacchi, ho smesso di truccarmi e di indossare le gonne. Era il 2006: per lui sarebbe stato inconcepibile che io mi iscrivessi ai social network, dato che mi aveva chiesto di cambiare il numero di cellulare e guardava chi mi scrivesse perché pensava avessi un altro. Non potevo nemmeno parlare con i miei genitori da sola. Lui era con me 24 ore su 24: vivevamo nella casa dei suoi genitori e loro erano all’oscuro di tutto. Ero una ragazza semplice, che credeva di dimostrare l’amore privandosi e facendosi privare della libertà. Anche se accondiscendi, ai manipolatori affettivi non basta mai perché il problema sono loro stessi. Io però non percepivo la paura, non capivo che le parole fanno più male delle botte''.Valentina ha proseguito il racconto descrivendo episodi inquietanti come ''il rituale della notte quando lui chiudeva la porta della stanza e nascondeva le chiavi, bloccava la finestra, spostava la scrivania e il divano contro la porta e buttava sul pavimento dei sacchi di plastica pensando che, in caso scappassi, avrebbe sentito il rumore dei miei passi''.
Il controllo ossessivo non riguardava solo la notte, ma la quotidianità. Valentina era costretta a fare il bagno e ad asciugarsi i capelli con le finestre chiuse e, quando lui usciva di casa, lei veniva chiusa a chiave in una stanza con un registratore attivo.
''Questa era ossessione, paranoia, controllo. Poi ho iniziato a dire no: erano ore di insulti, liti, musi e pianti e lui mi prendeva per sfinimento. Il mio punto di non ritorno è stato quando la relazione è finita – ha proseguito – Lui è caduto nell’abuso di psicofarmaci e, a seguito di una lite, ha confessato di avermi tradita con una prostituta. Quel giorno ci siamo lasciati ma come in tutti i rapporti di dipendenza è difficile fare tutto da un giorno all’altro e quindi decidiamo di separarci lentamente''.
Valentina intanto riprende in mano la vita: si iscrive alle scuole superiori e si diploma, esce con gli amici, viaggia, trova un lavoro e si rende autonoma. Mentre lei risaliva dalla fine della storia, lui andava sempre più in basso. Con una menzogna, l’attira a casa e, dopo aver cercato di trattenerla, le getta del liquido addosso.
Il racconto si fa drammatico. ''Mi sono spaventata quando ho sentito l’odore perché lì ho capito che stava succedendo qualcosa di brutto. Ho cercato di fare una chiamata di aiuto, ma tremavo e non sono riuscita''. Sono attimi, ma concitati. ''Ho buttato il telefono e mi sono ritrovata lui a un centimetro dalla mia faccia: non dimenticherò mai i suoi occhi. Non era più lo stesso: sembrava un demonio. Gli ho detto che fai: lui risponde ''ora lo vedi'' e mi ha dato fuoco. Non c’è stato nessun raptus, come si racconta nelle narrazioni. Descrivere questi uomini come bestia, animali è l’ennesimo modo per cercare di togliere loro qualche responsabilità. Ho iniziato a prendere fuoco e dicevo che mi faceva male, ma lui ha chiuso la porta''.
Il fuoco ha iniziato ad avvolgere Valentina che è sempre stata lucida e non ha mai perso i sensi. ''Il dolore era talmente atroce che volevo morire, ma non succedeva niente. Sentivo lo scoppiettio del fuoco, ma quello che respiravo era la mia essenza. L’istinto di sopravvivenza era così forte che ho iniziato a battere i piedi sul pavimento, a urlare: dopo che è scoppiato un vetro, qualcuno ha sentito e sono stati chiamati i soccorsi''.
Sulla scena, i soccorritori hanno trovato un cadavere e la donna ustionata: lui, come attesterà l’autopsia, è morto per ipossia, mentre la vita di Valentina rimarrà appesa a filo per sei mesi. Il suo corpo presenta ustioni di terzo grado e ha dovuto subire interventi, compreso quello, ancora più traumatico per lei, dell’amputazione della mano. La sua vita è cambiata per sempre e ora si batte perché questi legami malati possano essere riconosciuti al primo allarme. Mentre narra la sua storia, si ferma e viene aiutata a ripartire, a riprendere il filo. Il dolore che ha vissuto è troppo grande: per lei è come estraniarsi e raccontare la storia di un’altra persona. E lo è. Valentina Pitzalis, la giovane ragazza sarda dai lunghi capelli neri che i ragazzi facevano a gara a corteggiare, non c’è più. Oggi c’è una ragazza con il volto sfigurato e senza una mano, ma determinata, che gira l’Italia per portare il suo messaggio: mai più. Mai più come a lei, sopravvissuta all’orrore. Dicevamo in apertura che le parole possono essere violenza. Le parole possono anche salvare. Come quella di Valentina.
Michela Mauri