Barzanò: 80 anni fa la tragica morte dei fratelli Besana

Ottant'anni fa morirono i fratelli Carlo (detto Carletto) e Guerino Besana, partigiani ai quali il Comune di Barzanò ha a suo tempo intitolato la piazza centrale del paese, in prossimità del municipio. Il loro tragico destino è purtroppo legato a doppio filo alla Resistenza, cui entrambi parteciparono attivamente.
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L'11 ottobre 1944 un rastrellamento nazifascista passò al setaccio la valle fra Introbio e Biandino, in Valsassina. Guerino era sulla mulattiera con alcuni compagni: avrebbe potuto ripararsi come altri fanno, ma decise di rimanere a soccorrere alcuni partigiani colpiti. A sua volta, fu investito da una raffica di mitraglia. Ferito a un piede, a un braccio, al viso, gravissimo all'addome. Lo trovarono nei pressi di una grotta formata da un gran sasso di roccia, alle cinque di sera.
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Inginocchiato sulla nuda terra, Carletto contemplava il fratello dormente, cercando di ripararne il cadavere dai morsi dei cani-lupo. Fu in quel momento che fu sorpreso dai nemici. I nazisti lo condussero a Casargo, al Comando delle S.S. dove fu calato, insieme a tredici compagni in un gelido pozzo. Dopo quattro giorni li tolsero dal luogo orrendo dove - il 15 ottobre - conobbero la morte a fucilate.
Il Comune di Barzanò ricorderà i fratelli Besana domenica 20 ottobre presso il Parco delle Rimembranze di Via Manara, in occasione del centenario di presenza dello stesso. Alla cerimonia fissata alle ore 10.30 presenzieranno, oltre al sindaco Gualtiero Chiricò, anche i rappresentanti dell'ANPI provinciale.
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Di seguito ospitiamo un intervento a cura di Mario Frigerio, in ricordo appunto dei due fratelli, e del legame speciale con Barzanò che li ha accompagnati fino alla loro tragica fine:
IL DONO
Salgono rapidi la montagna, neri come la notte nella luce bianca di un’alba d’autunno. Gli stivali calpestano il tappeto giallo oro delle foglie, le mani stringono le armi, gli occhi frugano famelici tra gli alberi.  Improvvisi, gli spari squarciano il silenzio. Guerino, volato in soccorso di un compagno rimasto solo, viene investito da una raffica a un piede, a un braccio, al viso, all’addome. Vorrebbe lasciarsi cadere sul morbido letto di foglie, abbandonarsi guardando l’azzurro, ma non può: deve avvertire gli amici. E allora raccoglie le forze residue,  s’inerpica,  si trascina a fatica lottando col dolore lancinante. Sono le cinque della sera quando i partigiani della Brigata Rosselli lo trovano agonizzante nei pressi di una grotta, a poca distanza da Biandino. Tu, Carletto, li spingi a partire, a mettersi al sicuro: penserai tu ad assistere tuo fratello, a chiudergli gli occhi, a vegliare il suo corpo perché i neri cani degli uomini neri non lo azzannino.

Don Arturo Fumagalli, parroco di Introbio, entra nel buio della stanza dove tu, Carlo Besana di Barzanò, anni ventiquattro, sei rinchiuso con altri prigionieri. Sono passati tre giorni dalla cattura: un tempo segnato dagli interrogatori, dalle percosse, dalle torture: vi hanno persino calati più volte in un pozzo, sparando scariche di mitraglia all’imboccatura. Nessuno ha tradito. Per ognuno, il sacerdote ha una parola di conforto e il dono dei sacramenti. Ora si ferma davanti a te e, alle sue domande, rispondi raccontando di un piccolo paese di Brianza, di una famiglia numerosa, del papà che non c’è più,  di una vita povera ma tranquilla interrotta dalla guerra, del fratello morto tra le tue braccia. Sei sereno: solo pensando alla tua mamma, allo strazio del suo dolore, la voce s’incrina. Il parroco estrae allora dalla tasca una busta bianca, ti porge una matita, e tu scrivi: “Cara mamma, fatevi coraggio quando riceverete la notizia della nostra morte. Ho ricevuto i sacramenti e muoio in pace col Signore. Mamma, non pensate al fratello Guerino, perché l’ho assistito io alla sua morte. Arrivederci in Paradiso, figlio Carlo. Ciao”.

Scriverà Don Arturo nel suo diario: “… Da questo momento fino all’estremo anelito non un lamento, non un’imprecazione, non una parola di odio sulle labbra. (…) Dopo venti o forse trenta minuti di attesa si sale sull’autocorriera n. 15 della S.A.L. col plotone di esecuzione e col corpo di ufficiali. Si percorre la provinciale lungo tutto il paese, mentre la gente costernata a poco a poco si rende conto della triste realtà. Si accompagnano i sei nel prato retrostante il cimitero, suggerendo loro qualche giaculatoria e poi, diversamente da quanto era stato assicurato al parroco dal capitano, i condannati vengono da un ufficiale accompagnati ad uno ad uno alla sedia”. 

Tutti tacciono ora. Solo un sussurro di vento, a far rabbrividire le ultime foglie sui rami. Ogni morte, e ancor più la tua morte, esige da chi vi assiste rispetto e silenzio. Un silenzio che, prima d’essere rotto dall’orrore delle raffiche, sarà la tua voce a squarciare, volando alta verso la montagna e ancora più su, verso il cielo: “Ché va ul prém de Barzanò! (Qui va il primo di Barzanò!)”. 

L’ultimo parola della tua vita di ragazzo hai voluto riservarla al paese che ti aveva visto nascere, crescere, giocare e ridere con gli amici, fantasticare su amori e progetti di vita. Il 15 ottobre 1944, dietro al cimitero di Introbio, qualcuno ha deciso di rubarti il futuro, quel futuro di pace e serenità che il tuo coraggio ha voluto invece regalare a noi. A ottant’anni di distanza, vogliamo almeno dire grazie a te, a Guerino, a tutti gli uomini e le donne che, con il loro sacrificio, sono diventati seme e dono prezioso di libertà. Un dono che, mentre  i rumori e i lutti  della guerra tornano a riempire il mondo e rabbia e violenza serpeggiano tra le nostre case, sentiamo il dovere di amare, proteggere, riconquistare ogni giorno.
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