RACCONTI DALLA VILLA/1: Il Diluvio di Giulia Redaelli apre la nuova rubrica con il Greppi
Prende il via quest'oggi la prima puntata di "Racconti dalla Villa", la nuova rubrica proposta da Casateonline, Merateonline e Leccoonline in collaborazione con studenti ed insegnanti dell'Istituto superiore Greppi di Monticello (ne avevamo parlato QUI). Si tratta, in particolare, di una raccolta di racconti curata da Giulia Redaelli e dal professor Beniamino Valeriano. La guida alla lettura è del professor Francesco Bonfanti.
L'autrice di questo primo racconto è proprio Giulia Redaelli, ex alunna dell'Istituto Greppi di Monticello, che ora frequenta il corso di Filosofia all'Università Statale di Milano. Nel tempo libero si diletta nella scrittura.
Con la pubblicazione di seguito del primo testo, non ci resta che augurarvi una buona lettura!
Il diluvio – Giulia Redaelli
Giorgio Sterzi, perfettamente abbigliato, attendeva le 18:45 per uscire di casa e recarsi a cenare in un ristorante vicino.
Pensava a quella cena da giorni. Avrebbe mangiato ad un tavolo appositamente prenotato accanto alla finestra, come piaceva a lui. Avrebbe bevuto del buon vino e si sarebbe goduto quell’ottimo cibo il cui pensiero ne tormentava il corpo e l’anima, golosi e affamati, strabordanti di desiderio.
Il ristorante era all’angolo della strada, ma lui non aveva mai trovato il tempo di andarci. Passava di lì ogni giorno ed osservava quella meravigliosa insegna blu cosparsa di fiori, il cui odore si fondeva a quello del cibo.
La locanda trasformava la realtà in immaginazione e l’immaginazione in realtà. Osservandola da fuori, Giorgio Sterzi sognava la sua nonnina intenta a cucinare e servire i piatti della sua infanzia, accompagnati da un grande sorriso sdentato.
Come gli era caro quel sogno. Immaginava i piatti andare e venire nella locanda e le persone entrare vuote e affamate, per uscirne piene e felici.
In tarda serata le luci del locale si estendevano lungo tutta la strada, buia e tetra, dipingendola di un caldo giallo, che ricordava la luna sul mare. Certe notti, più fredde di altre, bastava guardare quell’ombra di luce per sentirsi dentro un caldo fuoco.
Giorgio Sterzi attendeva così il suo attimo di felicità.
Seduto sul suo divano, guardava l’orologio e ascoltava impaziente il suo ticchettio.
D’un tratto aveva alzato lo sguardo, accorgendosi di un piccolo alone nel soffitto bianco.
Dalla macchia era poi caduta una goccia e poi un’altra e poi un’altra e un’altra ancora, fin quando l’acqua, cadendo, non aveva preso lo stesso ritmo delle lancette dell’orologio.
All’unisono si potevano sentire ticchettii e gocciolii. Tic-plin, tic-plin, facevano. Tic-plin, sentiva Giorgio Sterzi. Tic-plin, tic-plin.
Non c’era da meravigliarsi se, qualche momento dopo, aveva scelto di porre sotto quella pioggerellina un secchio con una spugna sul fondo.
Tutto, quella sera, per quella cena, doveva rivelarsi perfetto. Non un rumore, non una goccia d’acqua, avrebbero rovesciato una brocca riempita alla perfezione.
La pioggia aveva smesso di risuonare e aveva lasciato ticchettare da solo, nel silenzio della stanza, l’orologio.
Poco dopo, quei rintocchi instancabili avevano iniziato a piegare i nervi di Giorgio Sterzi, che impaziente attendeva che quelle lancette segnassero l’ora stabilita.
Si aspettava uno spettacolo grandioso. Sarebbero usciti al di fuori dell’oggetto dei personaggi splendenti, che avrebbero annunciato l’ora a suon di piatti e di tamburi, accompagnati da un piccolo cuculo, che avrebbe cinguettato soavemente, promettendo l’arrivo della gioia a lungo attesa.
Lo stesso orologio si sarebbe alzato e avrebbe iniziato a danzare. Come un cigno avrebbe spiegato delle magnifiche ali e, alzandosi in volo, si sarebbe avvicinato all’uomo corrucciato sul divano per annunciargli l’imminente gioia.
Giorgio Sterzi, dunque, immaginava uno spettacolo analogo a quello offertogli dall’Orologio Astronomico di Praga molti anni prima. Ma il suo, quell’orologio blu che spaccava il secondo, non era che un ordinario marchingegno, il più ordinario degli orologi, il più semplice dei ticchettatori e il più fastidioso dei soprammobili.
Erano le 18:12, quando Giorgio Sterzi si era alzato dal divano e si era diretto verso il secchio per osservare la caduta dell’acqua al suo interno. Quando, d’un tratto, cogliendo il suo volto riflesso sulla superficie, ne era rimasto pietrificato.
Qualche ora prima si specchiava nel bagno, contorcendo il collo, per controllare di essersi perfettamente rasato. Nulla aveva il benché minimo difetto e ora, poco tempo dopo, ecco che qualche pelo di troppo faceva capolino dal suo naso e che la pelle, raggrinzita, era diventata ispida alla vista e al tatto.
Mentre si specchiava nell’acqua di quel secchio, notava che il suo maglione preferito presentava moltissimi batuffoli, più di quanti non avesse precedentemente riscontrato, e che la sua giacca, dapprima lucida e stirata, si era completamente stropicciata. Com’era possibile una cosa simile? Cosa di tanto cattivo, tanto da riuscire a rovinare tutto il suo aspetto in quel modo,
poteva essere stato presente nell’aria?
Giorgio Sterzi era rimasto così a fissare, occhi negli occhi, il suo riflesso, chiedendosi quale, tra quello del bagno e quello che vedeva in quell’acqua limpida, fosse il più autentico.
Intento ad osservare tutti i più assurdi particolari che spuntavano sul suo volto, Giorgio Sterzi non si era accorto di essersi sporto tanto sul secchio, che ormai le gocce d’acqua cadevano sulla sua nuca, scivolando in un fiume che scorreva nel letto della sua schiena.
Tutta la camicia era ormai umida ed era stato costretto a cambiarsi.
Aveva scelto un nuovo completo, una camicia a righe bianche e marroni, un maglione verde, dei semplici jeans ed il suo lungo impermeabile beige.
Era poi andato in bagno e si era spalmato del dopobarba sul viso e sul collo, si era cosparso di deodorante e si era spruzzato addosso del profumo, forse troppo, la cui boccetta si trovava nell’armadietto sopra il lavandino da chissà quanto tempo.
Dopodiché era tornato sul divano e attendeva.
Erano le 18:32 quando un altro alone si era creato sul soffitto. Da questo pendeva una sacca d’acqua, pronta a far cadere sul pavimento una gocciolina.
Dopo pochi minuti quella, seguita da molte altre, era scivolata a terra.
Giorgio Sterzi sentiva di nuovo le gocce appoggiarsi rumorosamente al suolo, in coordinazione al ticchettio dell’orologio. Così aveva posto una nuova bacinella che potesse raccogliere l’acqua che scendeva da quel buco nel soffitto. Tuttavia, seppure le gocce stessero cadendo nel recipiente, rimbombavano nella casa i gocciolii della pioggia, che non sembrava aver cessato di poggiarsi rumorosamente sul pavimento.
Giorgio Sterzi aveva così preso una scaletta e si era arrampicato sino all’alone nel soffitto, tappando il buco con del nastro isolante.
Ma il rumore non era cessato.
Si sentiva ancora provenire da qualche parte della casa un gocciolio insopportabile.
Giorgio Sterzi aveva allora controllato tutte le stanze alla ricerca di quel rumore che oramai si era fatto assordante.
Aperte tutte le porte della casa, quel suono sembrava essere provocato dal nulla. Non un buco nel soffitto, non un alone stavano facendo entrare acqua in casa, eppure quel fastidioso tintinnio persisteva.
Erano la 18:45, l’ora stabilita, ma Giorgio Sterzi sentiva ancora gocce cadere all’interno della sua casa e produrre un frastuono insopportabile. Non poteva più uscire ed ignorare ciò che stava succedendo: qualcosa nella sua casa, in una di quelle stanze, non andava. Doveva esserci una spiegazione a quel rumore e di certo non l’avrebbe trovata a cena.
Si era così seduto sul divano, accanto alla porta d’ingresso, e raggomitolato, con le ginocchia al petto e le mani sulle orecchie, dondolava avanti e indietro, a ritmo di goccia e d’orologio, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare.
Se fosse andato a cena, lasciando tutto così, nell’ignoto, sarebbe tornato e avrebbe ritrovato la stessa situazione, nulla si sarebbe potuto risolvere autonomamente. Inoltre, se fosse andato a cena, non avrebbe assaporato la felicità al pensiero di quel rumore e di quelle gocce e di quel frastuono, che inondavano la sua casa.
Lo aveva promesso a sé stesso: tutto sarebbe dovuto essere perfetto quella sera, ma così non era, quel momento non era perfetto, né la sua casa, né lui, né ciò che lo aspettava una volta fuori.
Come poteva uscire da quelle quattro mura sapendo che sarebbe tornato ad ascoltare quel rumore?
Eppure lui sognava quella cena da anni.
Sognava sua nonna portargli i piatti caldi del giorno, sognava i sorrisi dolci e il calore sulla pelle e l’odore di buono e il rumore delle stoviglie provenienti dalla cucina.
Sognava e dondolava e ascoltava quel cadere di gocce, ormai convinto che ve ne fossero a milioni in quella casa, che scendessero da tutte le pareti, dal soffitto, dai buchi nei muri; invisibili, le gocce cadevano e nella sua casa si faceva più fitto il diluvio.
Nota - di Francesco Bonfanti
Il racconto è costruito con maestria: all’abilità compositiva si somma la qualità dell’espressione.
La situazione iniziale di apparente neutralità precipita gradualmente ma inesorabilmente, fino a far sprofondare il protagonista nella nevrosi e nel delirio. All’evento esterno, e cioè la perdita d’acqua dal soffitto, che impedisce al protagonista di godere di un’agognata cena al ristorante, corrisponde un movimento interiore al personaggio, che lo fa regredire e perdere in malinconiche
ed alienate memorie d’infanzia.
La prosa è accurata e precisa nelle scelte lessicali, efficace e scorrevole nella sintassi; particolarmente riuscito è lo scivolamento del punto vista dalla prima parte del racconto, che aderisce allo sguardo del protagonista, allo sviluppo e alla conclusione, in cui dapprima s’insinuano nel lettore dubbi sull’attendibilità del personaggio, poi se ne rivela la follia.
Il finale è pregevole: la nevrosi del protagonista assume il carattere di maledizione biblica e il suo pianto pare sciogliersi in un evento di valore universale: il diluvio.
L'autrice di questo primo racconto è proprio Giulia Redaelli, ex alunna dell'Istituto Greppi di Monticello, che ora frequenta il corso di Filosofia all'Università Statale di Milano. Nel tempo libero si diletta nella scrittura.
Con la pubblicazione di seguito del primo testo, non ci resta che augurarvi una buona lettura!
Il diluvio – Giulia Redaelli
Giorgio Sterzi, perfettamente abbigliato, attendeva le 18:45 per uscire di casa e recarsi a cenare in un ristorante vicino.
Pensava a quella cena da giorni. Avrebbe mangiato ad un tavolo appositamente prenotato accanto alla finestra, come piaceva a lui. Avrebbe bevuto del buon vino e si sarebbe goduto quell’ottimo cibo il cui pensiero ne tormentava il corpo e l’anima, golosi e affamati, strabordanti di desiderio.
Il ristorante era all’angolo della strada, ma lui non aveva mai trovato il tempo di andarci. Passava di lì ogni giorno ed osservava quella meravigliosa insegna blu cosparsa di fiori, il cui odore si fondeva a quello del cibo.
La locanda trasformava la realtà in immaginazione e l’immaginazione in realtà. Osservandola da fuori, Giorgio Sterzi sognava la sua nonnina intenta a cucinare e servire i piatti della sua infanzia, accompagnati da un grande sorriso sdentato.
Come gli era caro quel sogno. Immaginava i piatti andare e venire nella locanda e le persone entrare vuote e affamate, per uscirne piene e felici.
In tarda serata le luci del locale si estendevano lungo tutta la strada, buia e tetra, dipingendola di un caldo giallo, che ricordava la luna sul mare. Certe notti, più fredde di altre, bastava guardare quell’ombra di luce per sentirsi dentro un caldo fuoco.
Giorgio Sterzi attendeva così il suo attimo di felicità.
Seduto sul suo divano, guardava l’orologio e ascoltava impaziente il suo ticchettio.
D’un tratto aveva alzato lo sguardo, accorgendosi di un piccolo alone nel soffitto bianco.
Dalla macchia era poi caduta una goccia e poi un’altra e poi un’altra e un’altra ancora, fin quando l’acqua, cadendo, non aveva preso lo stesso ritmo delle lancette dell’orologio.
All’unisono si potevano sentire ticchettii e gocciolii. Tic-plin, tic-plin, facevano. Tic-plin, sentiva Giorgio Sterzi. Tic-plin, tic-plin.
Non c’era da meravigliarsi se, qualche momento dopo, aveva scelto di porre sotto quella pioggerellina un secchio con una spugna sul fondo.
Tutto, quella sera, per quella cena, doveva rivelarsi perfetto. Non un rumore, non una goccia d’acqua, avrebbero rovesciato una brocca riempita alla perfezione.
La pioggia aveva smesso di risuonare e aveva lasciato ticchettare da solo, nel silenzio della stanza, l’orologio.
Poco dopo, quei rintocchi instancabili avevano iniziato a piegare i nervi di Giorgio Sterzi, che impaziente attendeva che quelle lancette segnassero l’ora stabilita.
Si aspettava uno spettacolo grandioso. Sarebbero usciti al di fuori dell’oggetto dei personaggi splendenti, che avrebbero annunciato l’ora a suon di piatti e di tamburi, accompagnati da un piccolo cuculo, che avrebbe cinguettato soavemente, promettendo l’arrivo della gioia a lungo attesa.
Lo stesso orologio si sarebbe alzato e avrebbe iniziato a danzare. Come un cigno avrebbe spiegato delle magnifiche ali e, alzandosi in volo, si sarebbe avvicinato all’uomo corrucciato sul divano per annunciargli l’imminente gioia.
Giorgio Sterzi, dunque, immaginava uno spettacolo analogo a quello offertogli dall’Orologio Astronomico di Praga molti anni prima. Ma il suo, quell’orologio blu che spaccava il secondo, non era che un ordinario marchingegno, il più ordinario degli orologi, il più semplice dei ticchettatori e il più fastidioso dei soprammobili.
Erano le 18:12, quando Giorgio Sterzi si era alzato dal divano e si era diretto verso il secchio per osservare la caduta dell’acqua al suo interno. Quando, d’un tratto, cogliendo il suo volto riflesso sulla superficie, ne era rimasto pietrificato.
Qualche ora prima si specchiava nel bagno, contorcendo il collo, per controllare di essersi perfettamente rasato. Nulla aveva il benché minimo difetto e ora, poco tempo dopo, ecco che qualche pelo di troppo faceva capolino dal suo naso e che la pelle, raggrinzita, era diventata ispida alla vista e al tatto.
Mentre si specchiava nell’acqua di quel secchio, notava che il suo maglione preferito presentava moltissimi batuffoli, più di quanti non avesse precedentemente riscontrato, e che la sua giacca, dapprima lucida e stirata, si era completamente stropicciata. Com’era possibile una cosa simile? Cosa di tanto cattivo, tanto da riuscire a rovinare tutto il suo aspetto in quel modo,
poteva essere stato presente nell’aria?
Giorgio Sterzi era rimasto così a fissare, occhi negli occhi, il suo riflesso, chiedendosi quale, tra quello del bagno e quello che vedeva in quell’acqua limpida, fosse il più autentico.
Intento ad osservare tutti i più assurdi particolari che spuntavano sul suo volto, Giorgio Sterzi non si era accorto di essersi sporto tanto sul secchio, che ormai le gocce d’acqua cadevano sulla sua nuca, scivolando in un fiume che scorreva nel letto della sua schiena.
Tutta la camicia era ormai umida ed era stato costretto a cambiarsi.
Aveva scelto un nuovo completo, una camicia a righe bianche e marroni, un maglione verde, dei semplici jeans ed il suo lungo impermeabile beige.
Era poi andato in bagno e si era spalmato del dopobarba sul viso e sul collo, si era cosparso di deodorante e si era spruzzato addosso del profumo, forse troppo, la cui boccetta si trovava nell’armadietto sopra il lavandino da chissà quanto tempo.
Dopodiché era tornato sul divano e attendeva.
Erano le 18:32 quando un altro alone si era creato sul soffitto. Da questo pendeva una sacca d’acqua, pronta a far cadere sul pavimento una gocciolina.
Dopo pochi minuti quella, seguita da molte altre, era scivolata a terra.
Giorgio Sterzi sentiva di nuovo le gocce appoggiarsi rumorosamente al suolo, in coordinazione al ticchettio dell’orologio. Così aveva posto una nuova bacinella che potesse raccogliere l’acqua che scendeva da quel buco nel soffitto. Tuttavia, seppure le gocce stessero cadendo nel recipiente, rimbombavano nella casa i gocciolii della pioggia, che non sembrava aver cessato di poggiarsi rumorosamente sul pavimento.
Giorgio Sterzi aveva così preso una scaletta e si era arrampicato sino all’alone nel soffitto, tappando il buco con del nastro isolante.
Ma il rumore non era cessato.
Si sentiva ancora provenire da qualche parte della casa un gocciolio insopportabile.
Giorgio Sterzi aveva allora controllato tutte le stanze alla ricerca di quel rumore che oramai si era fatto assordante.
Aperte tutte le porte della casa, quel suono sembrava essere provocato dal nulla. Non un buco nel soffitto, non un alone stavano facendo entrare acqua in casa, eppure quel fastidioso tintinnio persisteva.
Erano la 18:45, l’ora stabilita, ma Giorgio Sterzi sentiva ancora gocce cadere all’interno della sua casa e produrre un frastuono insopportabile. Non poteva più uscire ed ignorare ciò che stava succedendo: qualcosa nella sua casa, in una di quelle stanze, non andava. Doveva esserci una spiegazione a quel rumore e di certo non l’avrebbe trovata a cena.
Si era così seduto sul divano, accanto alla porta d’ingresso, e raggomitolato, con le ginocchia al petto e le mani sulle orecchie, dondolava avanti e indietro, a ritmo di goccia e d’orologio, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare.
Se fosse andato a cena, lasciando tutto così, nell’ignoto, sarebbe tornato e avrebbe ritrovato la stessa situazione, nulla si sarebbe potuto risolvere autonomamente. Inoltre, se fosse andato a cena, non avrebbe assaporato la felicità al pensiero di quel rumore e di quelle gocce e di quel frastuono, che inondavano la sua casa.
Lo aveva promesso a sé stesso: tutto sarebbe dovuto essere perfetto quella sera, ma così non era, quel momento non era perfetto, né la sua casa, né lui, né ciò che lo aspettava una volta fuori.
Come poteva uscire da quelle quattro mura sapendo che sarebbe tornato ad ascoltare quel rumore?
Eppure lui sognava quella cena da anni.
Sognava sua nonna portargli i piatti caldi del giorno, sognava i sorrisi dolci e il calore sulla pelle e l’odore di buono e il rumore delle stoviglie provenienti dalla cucina.
Sognava e dondolava e ascoltava quel cadere di gocce, ormai convinto che ve ne fossero a milioni in quella casa, che scendessero da tutte le pareti, dal soffitto, dai buchi nei muri; invisibili, le gocce cadevano e nella sua casa si faceva più fitto il diluvio.
Nota - di Francesco Bonfanti
Il racconto è costruito con maestria: all’abilità compositiva si somma la qualità dell’espressione.
La situazione iniziale di apparente neutralità precipita gradualmente ma inesorabilmente, fino a far sprofondare il protagonista nella nevrosi e nel delirio. All’evento esterno, e cioè la perdita d’acqua dal soffitto, che impedisce al protagonista di godere di un’agognata cena al ristorante, corrisponde un movimento interiore al personaggio, che lo fa regredire e perdere in malinconiche
ed alienate memorie d’infanzia.
La prosa è accurata e precisa nelle scelte lessicali, efficace e scorrevole nella sintassi; particolarmente riuscito è lo scivolamento del punto vista dalla prima parte del racconto, che aderisce allo sguardo del protagonista, allo sviluppo e alla conclusione, in cui dapprima s’insinuano nel lettore dubbi sull’attendibilità del personaggio, poi se ne rivela la follia.
Il finale è pregevole: la nevrosi del protagonista assume il carattere di maledizione biblica e il suo pianto pare sciogliersi in un evento di valore universale: il diluvio.
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