Jorge Bergoglio, il Papa della franchezza e del buon senso

È morto papa Francesco.
So che toccherà sorbirci adesso la pletora di carneadi che divulgheranno selfie rubati, foto istituzionali e casuali di loro insieme al pontefice.
So che toccherà leggere aneddoti inutili di chi quella tal volta l’ha incontrato, perché vale sempre (ancor più nel mondo dei social media) la vecchia abitudine: “È morto X, ma parliamo di me”. E chi vive di luce riflessa sfrutta le eclissi per credere di brillare.
So che incomincerà la raccolta delle figurine dei preferiti al conclave, dove – si sa – chi entra papa esce cardinale. Soprattutto quest’anno che Hollywood ha lanciato la trasposizione cinematografica di quel romanzo bellissimo e spiazzante di Robert Harris dal titolo, appunto, “Conclave”, del 2016, profetica anticipazione della morte proprio di Francesco.
So che per qualche giorno tutti gli italiani si scopriranno vaticanisti, teologi, storici della Chiesa. Soprattutto i mangiapreti, o i conservatori più retrivi (che in fondo svolgono lo stesso pessimo servizio alla causa della fede).
Vent’anni fa moriva un altro pontefice in carica, papa Giovanni Paolo II, dopo anni di Passione, in cui la sofferenza fisica rendeva plastica l’idea del sacrificio, del martirio inteso nel senso etimologico del termine, “testimonianza”. La morte di papa Woytila arrivò come un esito inevitabile e persino augurato, come una liberazione da molti invocata per quell’anima così grande imprigionata in un corpo fattosi ormai così debole.
Vent’anni dopo muore, subito all’indomani della Pasqua, papa Francesco. Per molti versi inaspettatamente: le dimissioni dal Gemelli dopo settimane di apprensione, le notizie rassicuranti dei medici, le apparizioni fugaci in Santa Maria Maggiore, in San Pietro e persino ai fedeli nella piazza per il saluto di Pasqua. A dispetto dell’età e degli acciacchi, nessuno si aspettava una fine così vicina.
Mi hanno colpito molto proprio le immagini familiari cui accennavo prima: il papa in chiesa vestito con i pantaloni scuri e un poncho argentino a ripararlo dal freddo. Un papa “casalingo” e non “in divisa”, diremmo. Adesso che tutto è compiuto mi pare di rivedere in lui tanti dei nostri nonni che si sono spenti a casa loro. Dopo un lungo ricovero in ospedale, a prognosi ormai non più risolutiva, hanno scelto e chiesto di tornare a casa, di rivedere le loro mura, i loro cari – di “mettere a posto le cose”, aveva detto la mia nonna a novantasette anni –, di ricucire gli strappi, chiedere scusa, abbracciare con gli occhi tutti.
La morte così normale di papa Francesco, quasi prosaica rispetto all’epicità della Passione di papa Woytila, porta con sé i tratti di quella passione minuscola per le cose quotidiane, per i rapporti umani, che è stata uno dei tratti più significativi e innovativi di questo pontificato. Franchezza e buon senso, anche quando la prima sembrava sgraziata (la “frociaggine” del clero, confermata ogni settimana da notizie spiazzanti, anche e soprattutto nella nostra diocesi di Milano) e il secondo banale, come ridicolo e inedito apparve il messaggio di quel san Francesco da cui papa Bergoglio ha preso nome, coraggio, slancio e semplicità.
Chissà se la Chiesa avrà il coraggio di proseguire la strada di questa passione.
Stefano Motta
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