RACCONTI DALLA VILLA/4: la libertà di ogni scelta e le inevitabili conseguenze
Prosegue la rubrica ''Racconti dalla Villa'', inaugurata nelle scorse settimane (recuperate l’introduzione QUI e i primi due racconti QUI), con un nuovo testo di Francesco Sinigaglia, accompagnato dalla nota di Barbara Battistella, professoressa dell’istituto superiore Greppi di Monticello, dove studiano o hanno studiato gli autori delle storie.
Come ogni martedì: lasciatevi trasportare dalla narrazione.
L'OMBRA SULLA COLLINA - FRANCESCO SINIGAGLIA
Mi è capitato di ripensare a quando ero bambino. Passavo per il quartiere latino, come mi capita spesso da quando vivo a Parigi, per tornare alla mia abitazione. Ci puoi trovare qualsiasi tipo di venditore. Musicisti di strada, fruttivendoli, pittori. Il mio sguardo si arrestò fisso su un dipinto in esposizione. Era un paesaggio che mi sembrava di conoscere. Anche l’azzurro del cielo, i fili d’erba scintillanti e il bosco in lontananza mi conoscevano. Non avevo alcun motivo per fermarmi a vederlo, nessun motivo per ricercare quel luogo nella mia mente e rivivere quei ricordi; ma risentii il vento estivo in faccia, i piedi scalzi che toccavano l’erba e la voce di Cécile che mi chiamava. “Jerome, Jerome guarda cos’ho trovato”. Ero sempre estasiato dalle sue scoperte e, nonostante fossi preparato alle stranezze che mi portava, mi sorprendeva ogni volta. Un giorno trovava un sasso a forma di vaso, un giorno un fiore meraviglioso, un altro mi portava una mia scarpa lasciata chissà dove. Io e Cécile avevamo entrambi dieci anni. Ci trovavamo ogni estate a Le Cavèrgne, un piccolo paesino nel nord della Provenza. Non c’erano molti svaghi per dei bambini come noi e così i nostri genitori, abitudinari turisti di quel posto, iniziarono a farci giocare assieme. Dopo anni che frequentavamo entrambi quel piccolo paesino sperduto, le vacanze estive diventarono immancabilmente sinonimo del nostro incontro.
Trascorrevamo la maggior parte delle giornate all’aperto. La casa dove stavo era circondata dai campi, che i contadini un tempo utilizzavano per le coltivazioni, ma ormai erano diventati una grande e incolta distesa verde. Poco distante dalla mia abitazione c’era una grande collina, abbastanza estesa, che terminava, nella parte più alta, in una foresta di pini, che delimitava la fine della campagna di Le Cavèrgne. Questa collina divenne ben presto il luogo prediletto per i nostri svaghi. Cécile amava salire fino alla parte più alta e rotolarsi giù fino a che la pianura non la rallentava. Io spesso la seguivo nei suoi giochi, assecondandola nelle folli idee che aveva. Era una bambina molto sveglia ed estremamente estroversa. In effetti, ripensandoci adesso, non vedo cosa avessimo in comune, eppure quel bambino un po’ distratto e perso nei suoi pensieri amava stare con lei. Tra tutti i nostri passatempi ce n’era uno in particolare che occupava gran parte delle nostre giornate. I prati della campagna di Le Cavèrgne accoglievano moltissime cavallette. Potevamo passare pomeriggi interi a cercare di catturarle. “Bisogna stare attenti, perché si possono nascondere ovunque. Se ne vedi una, bisogna stare immobili e poi balzare avanti come fanno le tigri con la loro preda”, dicevo io. “Ma a me non piacciono le tigri, posso essere un serpente o un fenicottero, un fenicottero che cattura cavallette per portarle ai suoi cuccioli”. Capitava che qualcuna ci scappasse appena muovevamo il filo d’erba su cui si era posata. Ma quando riuscivamo a prenderne una e a tenerla nelle nostre mani, ci chiamavamo subito per mostrare orgogliosi l’insetto verde, piccolo o grande che fosse, e poi le liberavamo, guardandole saltare da una parte all’altra del prato. Potevano essere ovunque e nei pomeriggi più caldi la ricerca e la cattura di questi insetti ci sfiniva. “Quanti ne hai presi Jerome?” “Dodici”. “Dodici? Ma che dici erano forse cinque o sei, non di più”. “No, no, erano dodici, ne ho vista anche una gigantesca doveva essere la regina”. “E perché non me l’hai fatta vedere?”. “Mentre mi avvicinavo è saltata via verso il bosco e l’ho lasciata andare”. Dovete sapere che il bosco al di sopra della collina era un luogo molto serio per noi. Le ombre coprivano le radici di ogni albero, senza lasciar passare un solo raggio di luce. I tronchi fitti rendevano tutto terribilmente identico; non un solo rumore si poteva sentire, solo un inquietante silenzio. Mia mamma, per prima, ci raccontava che era un posto pericoloso. Ci diceva che nessuno doveva andarci, specialmente i bambini. Ma alla domanda: “Cosa succede se qualcuno ci entra?” la risposta era sempre leggera e quasi irrisoria: “Non preoccuparti, so che non ci andreste mai; non può succedervi nulla finché rimanete alla luce del sole”. All’epoca quel luogo ci affascinava e spaventava allo stesso tempo. Il buio che non conoscevamo, che ci privava di tutto quello che alla luce avevamo: quando lo guardavamo da lontano era come se ci chiamasse, come se conoscesse i nostri nomi. Potete quindi immaginare la mia sorpresa quando, un pomeriggio, mentre stavamo sdraiati sull’erba a guardare il cielo, Cécile mi disse: “Voglio entrare nella foresta”. “Facciamo un gioco”, continuò balzando in piedi e prendendo un sassolino da terra. “Uno lancia questo sasso più lontano che può e l’altro lo segue e fa lo stesso ancora e ancora”. “E quando arriviamo in cima alla collina?” la interruppi io. “Continuiamo finché uno non si ferma”. Ammiravo così tanto la sua capacità di creare giochi dal nulla. Rimasi forse a bocca aperta, perché ricordo che lei non aspettò nemmeno che parlassi, ma iniziò a tirare il primo sasso. Allora io lo seguii qualche metro più in là. Raccolsi la pietra caduta e la lanciai con tutta la forza che avevo. Rimbalzò muovendo qualche cavalletta nascosa nel verde. Allora iniziammo a correre, tirandoci indietro per arrivare prima dell’altro, buttandoci anche a terra pur di vincere.
L’ultimo lancio, infine, fu il mio. Cécile si precipitò in cima alla collina, a ridosso del bosco, ritrovandosi a un passo dall’ombra oscura dei pini che si ergevano immensi sopra di noi.
Raccolse lentamente il sasso. Poi, lo tirò con tutta la sua forza all’interno del bosco, dove non si riusciva nemmeno a vedere dove fosse. “È troppo lontano, non posso prenderlo” le dissi io.
“Qualcuno dovrà riprendere il sasso” rispose lei fissando gli alberi. “Io non voglio andare Cécile, questa volta rimango qui”. Si girò di scatto e mi guardò dritto negli occhi. “Io voglio vedere cosa c’è, non mi importa se tu hai paura, io ci vado Jerome”. Quella frase mi stupì. Capii che nessuna mia parola l’avrebbe fermata. Iniziò a camminare all’interno del bosco, a passo sommesso, come se non volesse farsi sentire; come se qualcuno avesse potuto sentirla. Io rimasi fermo, immobile, a fissare la mia amica, che se ne andava. Scesi dalla collina e decisi di aspettare finché non sarebbe tornata. Era la prima volta che non la seguivo. Non avevo mai immaginato quanto potessi rimanere solo senza la sua compagnia. Tutto sembrava fermo e privo di vita. Solo il cielo mi donava un po’ di conforto in quell’attesa. Mi ricordo che mi sdraiai sull’erba a guardare le nuvole passare. Perché non l’avevo seguita? Perché mi sono fermato? Davanti al buio, che ci chiama e ci manda via, possiamo sempre scegliere se oltrepassare il confine o tirarci indietro. Chiusi gli occhi e mi addormentai con i fili d’erba che mi accarezzavano la faccia, mentre pensavo a Cécile che entrava nella foresta. Quella fu l’ultima volta che la vidi. Trovarono il suo corpo due giorni dopo, in un fossato. Era caduta nel burrone dopo essersi persa. Aveva una gamba rotta e il braccio slogato. Il volto pieno di tagli. Le orbite prive degli occhi, mangiati da alcuni animali selvatici. Le scarpe erano finite a venti metri da lei. La caduta fu talmente rovinosa che era piena di lividi, ma non abbastanza alta da ucciderla sul colpo. Ci volle qualche ora prima che il freddo e il dolore la finissero. Anche prima che i miei genitori mi raccontassero del ritrovamento sapevo che non sarebbe più tornata. Il bosco l’aveva presa. Quell’estate fu anche l’ultima volta che andai a Le Cavèrgne. Non ripensai più alle vacanze in Provenza. Né alla collina nella quale giocavo. Né alla mia amica. Fino a una settimana fa, quando tutti questi ricordi, che avevo dimenticato con la sua morte, riaffiorarono dall’ombra. Ora, mi accorgo quanto quel periodo della mia vita sia stato bello per me e quanto la fine che ha avuto mi abbia segnato. Quel bambino, che amava correre nei campi, giocare a nascondino e prendere cavallette, sono certo che abbia seguito Cécile. Che sia andato con lei in quel luogo che tanto ci spaventava. Adesso, mi ritrovo di nuovo qui, ai piedi della collina, mentre guardo i prati in cui passavamo le giornate. Ho deciso di tornare in Provenza, per vedere dal vivo il paesaggio di quel dipinto, della mia giovinezza. Tutto sembra diverso. Mi domando se non sto sbagliando, se davvero ho vissuto in questo posto, oppure mi ritrovo a ricordare un luogo che non ho mai visto. Ma, in fondo, la mia memoria lo riconosce. Per quanto il tempo possa averlo cambiato e per quanto possa aver cambiato me, sento, finalmente, che i ricordi hanno trovato casa. Chiudo gli occhi e sento il rumore dei grilli e delle cavallette che si espande per tutta la collina. Il loro rumore copre il silenzio, come la notte inizia a ricoprire il tramonto.
NOTA
Un quadro. È un quadro a dare l’avvio al racconto riportando alla luce un ricordo sepolto nella memoria del protagonista, ma è anche il racconto stesso a sembrare un quadro, con tocchi delicati e pennellate di colore che restituiscono la vividezza del paesaggio provenzale e i giochi spensierati di due bambini, al tempo stesso attratti e respinti dal bosco ai margini della collina. La foresta rappresenta il confine fisico da non superare, ma anche il limite dell’infanzia e dell’innocenza. Sarà la vivace Cécile ad avere il coraggio di osare, spingendosi nel bosco buio, luogo simbolico del folklore popolare che tradizionalmente incarna le paure dell’uomo e il pericolo dell’ignoto. Alla fine, il protagonista non può che interrogarsi sulle ragioni che lo hanno trattenuto, impedendogli di seguire l’amica al di là del limite, mentre riflette sull’umana prerogativa che è la possibilità di scegliere, sempre, nel bene e nel male, con la consapevolezza che qualsiasi decisione comporta delle conseguenze da affrontare e un prezzo da pagare.
LE PUNTATE PRECEDENTI:
-Racconti dalla Villa/0: L'Introduzione
-Racconti dalla Villa/1: Il Diluvio
-Racconti dalla Villa/2: Arlene di Piombo
-Racconti dalla Villa/3: Una mattina come tante
Come ogni martedì: lasciatevi trasportare dalla narrazione.
I curatori: Giulia Redaelli e Beniamino Valeriano
L'OMBRA SULLA COLLINA - FRANCESCO SINIGAGLIA
Mi è capitato di ripensare a quando ero bambino. Passavo per il quartiere latino, come mi capita spesso da quando vivo a Parigi, per tornare alla mia abitazione. Ci puoi trovare qualsiasi tipo di venditore. Musicisti di strada, fruttivendoli, pittori. Il mio sguardo si arrestò fisso su un dipinto in esposizione. Era un paesaggio che mi sembrava di conoscere. Anche l’azzurro del cielo, i fili d’erba scintillanti e il bosco in lontananza mi conoscevano. Non avevo alcun motivo per fermarmi a vederlo, nessun motivo per ricercare quel luogo nella mia mente e rivivere quei ricordi; ma risentii il vento estivo in faccia, i piedi scalzi che toccavano l’erba e la voce di Cécile che mi chiamava. “Jerome, Jerome guarda cos’ho trovato”. Ero sempre estasiato dalle sue scoperte e, nonostante fossi preparato alle stranezze che mi portava, mi sorprendeva ogni volta. Un giorno trovava un sasso a forma di vaso, un giorno un fiore meraviglioso, un altro mi portava una mia scarpa lasciata chissà dove. Io e Cécile avevamo entrambi dieci anni. Ci trovavamo ogni estate a Le Cavèrgne, un piccolo paesino nel nord della Provenza. Non c’erano molti svaghi per dei bambini come noi e così i nostri genitori, abitudinari turisti di quel posto, iniziarono a farci giocare assieme. Dopo anni che frequentavamo entrambi quel piccolo paesino sperduto, le vacanze estive diventarono immancabilmente sinonimo del nostro incontro.
Trascorrevamo la maggior parte delle giornate all’aperto. La casa dove stavo era circondata dai campi, che i contadini un tempo utilizzavano per le coltivazioni, ma ormai erano diventati una grande e incolta distesa verde. Poco distante dalla mia abitazione c’era una grande collina, abbastanza estesa, che terminava, nella parte più alta, in una foresta di pini, che delimitava la fine della campagna di Le Cavèrgne. Questa collina divenne ben presto il luogo prediletto per i nostri svaghi. Cécile amava salire fino alla parte più alta e rotolarsi giù fino a che la pianura non la rallentava. Io spesso la seguivo nei suoi giochi, assecondandola nelle folli idee che aveva. Era una bambina molto sveglia ed estremamente estroversa. In effetti, ripensandoci adesso, non vedo cosa avessimo in comune, eppure quel bambino un po’ distratto e perso nei suoi pensieri amava stare con lei. Tra tutti i nostri passatempi ce n’era uno in particolare che occupava gran parte delle nostre giornate. I prati della campagna di Le Cavèrgne accoglievano moltissime cavallette. Potevamo passare pomeriggi interi a cercare di catturarle. “Bisogna stare attenti, perché si possono nascondere ovunque. Se ne vedi una, bisogna stare immobili e poi balzare avanti come fanno le tigri con la loro preda”, dicevo io. “Ma a me non piacciono le tigri, posso essere un serpente o un fenicottero, un fenicottero che cattura cavallette per portarle ai suoi cuccioli”. Capitava che qualcuna ci scappasse appena muovevamo il filo d’erba su cui si era posata. Ma quando riuscivamo a prenderne una e a tenerla nelle nostre mani, ci chiamavamo subito per mostrare orgogliosi l’insetto verde, piccolo o grande che fosse, e poi le liberavamo, guardandole saltare da una parte all’altra del prato. Potevano essere ovunque e nei pomeriggi più caldi la ricerca e la cattura di questi insetti ci sfiniva. “Quanti ne hai presi Jerome?” “Dodici”. “Dodici? Ma che dici erano forse cinque o sei, non di più”. “No, no, erano dodici, ne ho vista anche una gigantesca doveva essere la regina”. “E perché non me l’hai fatta vedere?”. “Mentre mi avvicinavo è saltata via verso il bosco e l’ho lasciata andare”. Dovete sapere che il bosco al di sopra della collina era un luogo molto serio per noi. Le ombre coprivano le radici di ogni albero, senza lasciar passare un solo raggio di luce. I tronchi fitti rendevano tutto terribilmente identico; non un solo rumore si poteva sentire, solo un inquietante silenzio. Mia mamma, per prima, ci raccontava che era un posto pericoloso. Ci diceva che nessuno doveva andarci, specialmente i bambini. Ma alla domanda: “Cosa succede se qualcuno ci entra?” la risposta era sempre leggera e quasi irrisoria: “Non preoccuparti, so che non ci andreste mai; non può succedervi nulla finché rimanete alla luce del sole”. All’epoca quel luogo ci affascinava e spaventava allo stesso tempo. Il buio che non conoscevamo, che ci privava di tutto quello che alla luce avevamo: quando lo guardavamo da lontano era come se ci chiamasse, come se conoscesse i nostri nomi. Potete quindi immaginare la mia sorpresa quando, un pomeriggio, mentre stavamo sdraiati sull’erba a guardare il cielo, Cécile mi disse: “Voglio entrare nella foresta”. “Facciamo un gioco”, continuò balzando in piedi e prendendo un sassolino da terra. “Uno lancia questo sasso più lontano che può e l’altro lo segue e fa lo stesso ancora e ancora”. “E quando arriviamo in cima alla collina?” la interruppi io. “Continuiamo finché uno non si ferma”. Ammiravo così tanto la sua capacità di creare giochi dal nulla. Rimasi forse a bocca aperta, perché ricordo che lei non aspettò nemmeno che parlassi, ma iniziò a tirare il primo sasso. Allora io lo seguii qualche metro più in là. Raccolsi la pietra caduta e la lanciai con tutta la forza che avevo. Rimbalzò muovendo qualche cavalletta nascosa nel verde. Allora iniziammo a correre, tirandoci indietro per arrivare prima dell’altro, buttandoci anche a terra pur di vincere.
L’ultimo lancio, infine, fu il mio. Cécile si precipitò in cima alla collina, a ridosso del bosco, ritrovandosi a un passo dall’ombra oscura dei pini che si ergevano immensi sopra di noi.
Raccolse lentamente il sasso. Poi, lo tirò con tutta la sua forza all’interno del bosco, dove non si riusciva nemmeno a vedere dove fosse. “È troppo lontano, non posso prenderlo” le dissi io.
“Qualcuno dovrà riprendere il sasso” rispose lei fissando gli alberi. “Io non voglio andare Cécile, questa volta rimango qui”. Si girò di scatto e mi guardò dritto negli occhi. “Io voglio vedere cosa c’è, non mi importa se tu hai paura, io ci vado Jerome”. Quella frase mi stupì. Capii che nessuna mia parola l’avrebbe fermata. Iniziò a camminare all’interno del bosco, a passo sommesso, come se non volesse farsi sentire; come se qualcuno avesse potuto sentirla. Io rimasi fermo, immobile, a fissare la mia amica, che se ne andava. Scesi dalla collina e decisi di aspettare finché non sarebbe tornata. Era la prima volta che non la seguivo. Non avevo mai immaginato quanto potessi rimanere solo senza la sua compagnia. Tutto sembrava fermo e privo di vita. Solo il cielo mi donava un po’ di conforto in quell’attesa. Mi ricordo che mi sdraiai sull’erba a guardare le nuvole passare. Perché non l’avevo seguita? Perché mi sono fermato? Davanti al buio, che ci chiama e ci manda via, possiamo sempre scegliere se oltrepassare il confine o tirarci indietro. Chiusi gli occhi e mi addormentai con i fili d’erba che mi accarezzavano la faccia, mentre pensavo a Cécile che entrava nella foresta. Quella fu l’ultima volta che la vidi. Trovarono il suo corpo due giorni dopo, in un fossato. Era caduta nel burrone dopo essersi persa. Aveva una gamba rotta e il braccio slogato. Il volto pieno di tagli. Le orbite prive degli occhi, mangiati da alcuni animali selvatici. Le scarpe erano finite a venti metri da lei. La caduta fu talmente rovinosa che era piena di lividi, ma non abbastanza alta da ucciderla sul colpo. Ci volle qualche ora prima che il freddo e il dolore la finissero. Anche prima che i miei genitori mi raccontassero del ritrovamento sapevo che non sarebbe più tornata. Il bosco l’aveva presa. Quell’estate fu anche l’ultima volta che andai a Le Cavèrgne. Non ripensai più alle vacanze in Provenza. Né alla collina nella quale giocavo. Né alla mia amica. Fino a una settimana fa, quando tutti questi ricordi, che avevo dimenticato con la sua morte, riaffiorarono dall’ombra. Ora, mi accorgo quanto quel periodo della mia vita sia stato bello per me e quanto la fine che ha avuto mi abbia segnato. Quel bambino, che amava correre nei campi, giocare a nascondino e prendere cavallette, sono certo che abbia seguito Cécile. Che sia andato con lei in quel luogo che tanto ci spaventava. Adesso, mi ritrovo di nuovo qui, ai piedi della collina, mentre guardo i prati in cui passavamo le giornate. Ho deciso di tornare in Provenza, per vedere dal vivo il paesaggio di quel dipinto, della mia giovinezza. Tutto sembra diverso. Mi domando se non sto sbagliando, se davvero ho vissuto in questo posto, oppure mi ritrovo a ricordare un luogo che non ho mai visto. Ma, in fondo, la mia memoria lo riconosce. Per quanto il tempo possa averlo cambiato e per quanto possa aver cambiato me, sento, finalmente, che i ricordi hanno trovato casa. Chiudo gli occhi e sento il rumore dei grilli e delle cavallette che si espande per tutta la collina. Il loro rumore copre il silenzio, come la notte inizia a ricoprire il tramonto.
NOTA
Un quadro. È un quadro a dare l’avvio al racconto riportando alla luce un ricordo sepolto nella memoria del protagonista, ma è anche il racconto stesso a sembrare un quadro, con tocchi delicati e pennellate di colore che restituiscono la vividezza del paesaggio provenzale e i giochi spensierati di due bambini, al tempo stesso attratti e respinti dal bosco ai margini della collina. La foresta rappresenta il confine fisico da non superare, ma anche il limite dell’infanzia e dell’innocenza. Sarà la vivace Cécile ad avere il coraggio di osare, spingendosi nel bosco buio, luogo simbolico del folklore popolare che tradizionalmente incarna le paure dell’uomo e il pericolo dell’ignoto. Alla fine, il protagonista non può che interrogarsi sulle ragioni che lo hanno trattenuto, impedendogli di seguire l’amica al di là del limite, mentre riflette sull’umana prerogativa che è la possibilità di scegliere, sempre, nel bene e nel male, con la consapevolezza che qualsiasi decisione comporta delle conseguenze da affrontare e un prezzo da pagare.
Barbara Battistella
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LE PUNTATE PRECEDENTI:
-Racconti dalla Villa/0: L'Introduzione
-Racconti dalla Villa/1: Il Diluvio
-Racconti dalla Villa/2: Arlene di Piombo
-Racconti dalla Villa/3: Una mattina come tante