RACCONTI DALLA VILLA/5: l'amore e quei legami così forti, ma non sempre eterni

Prosegue la rubrica ''Racconti dalla Villa'', inaugurata nelle scorse settimane (recuperate l’introduzione QUI e i primi quattro racconti QUI), con un nuovo testo di Irene Costamagna, accompagnato dalla nota di Barbara Battistella, professoressa dell’istituto superiore Greppi di Monticello, dove studiano o hanno studiato gli autori delle storie.
Come ogni martedì: lasciatevi trasportare dalla narrazione.
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I curatori: Giulia Redaelli e Beniamino Valeriano


MEMORIE DI UN GATTO - IRENE COSTAMAGNA
È la sua prima vita da gatto.
E di vite prima di quella ne ha vissute tante, abbastanza da averne perso il conto. Non si ricorda la sua prima nascita, il suo principio, ma si ricorda questa e anche il modo in cui inizialmente l’avesse odiata. Aveva pensato che gli era capitata una vita stretta, senza la capacità di proferire parola, lontano da tutti i piaceri a cui il suo corpo umano gli aveva dato accesso. Con gli anni ha imparato ad apprezzare l’assenza di responsabilità e la calma con cui il suo piccolo mondo girava. Lento, mai fermo.
Anche quel tardo pomeriggio di metà luglio è come tanti altri. Osserva il modo in cui il sole cola attraverso le tende e scalda l’aria. Si crogiola nel suo calore. È estate. Il cielo è limpido. Le cicale cantano.
- Scusa se ci ho messo così tanto.
Si volta verso l’uomo sulla sedia a dondolo. È vecchio, sull’ottantina. La pelle delle sue mani è come quella degli alberi. I suoi occhi sono nebbiosi e i suoi piedi sono malfermi. 
- Non fa niente, risponde. Si alza dal suo posto, si stiracchia e si arrampica sulle gambe del padrone. - La puntualità non è mai stata il tuo forte in questa vita.
L’Altro ride, per quanto gli sia permesso con la poca aria che i suoi polmoni riescono a intrappolare. Fa fatica anche nel più basilare dei movimenti.
Sente la sua mano rugosa farsi strada nel suo pelo.
- Sai cosa significa? -, riprende l’Altro, gli occhi fissi sul suo muso, quasi come se fossero tornati a vedere come quando era più giovane. Come se gli guardassero direttamente l’anima. Probabilmente è proprio quello che sta facendo.
- Lo so.
Significa che sta per morire. Questione di minuti. Non in tutte le vite si erano incontrati, non in tutte le vite avevano avuto memoria l’uno dell’altro. Capitava che solo uno dei due non ricordasse, ma quando lo faceva era perché stava per arrivare la sua ora. E quando uno moriva l’altro lo avvertiva, anche se si trovava dall’altra parte del globo. Sentiva la sua anima diffondersi nell’universo e aspettarlo per un’altra vita. 
Anche quella volta non c’è eccezione.
- Dopo tutte queste vite non riesci ancora ad accettare con leggerezza il fatto che non tutto dura per sempre, continua l’Altro.
Non è una domanda. Fra di loro non ci sono mai domande, non ne hanno bisogno.
- Ma noi sì. Noi duriamo in eterno, è la nostra mortalità che ci maledice.
- Pensi davvero che sia una maledizione?
- Sì.
- Perché?
- Perché ciò che davvero ci unisce non è la vita, ma la morte, risponde. - Viviamo anche senza incontrarci, anche senza il ricordo dell’esistenza l’uno dell’altro, ma quando moriamo, lo facciamo insieme. Tu stai morendo proprio adesso e sappiamo entrambi che quando sarai andato io non potrò fare altro che aspettare il mio turno. Anche le vite in cui uno di noi è un oggetto o un animale non possono salvarci dall’inevitabile. È ciò che io chiamo maledizione.
- Allora forse io sono la tua maledizione e tu sei la mia.
- Forse.
- E chi ci ha maledetto?
- Dio, immagino.
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L’Altro ride. È una risata stanca, la sua. Tanto quanto la sua mano che piano ricade sul grembo. Si fa un po’ più vicino all’uomo e strofina il muso sul suo petto. Il suo respiro è lento e così è il suo cuore. L’Altro guarda fuori dalla finestra.
- Credo… che Dio ci abbia donato il mondo, dice, - Non credi che se avesse davvero voluto punirci avrebbe reso le nostre innumerevoli vite dolorose? Eppure in ogni esistenza abbiamo l’opportunità di amarci.
- O di odiarci. Ci sono state vite in cui ci siamo uccisi a vicenda. Come quella in cui io ero il cacciatore e tu la preda. Ti ho ficcato una pallottola in testa. 
-Ma quando ti sei accorto che si trattava di me mi hai amato. Anche se ero morto. Hai amato il mio ricordo. Anche se eri stato tu a uccidermi. E, oltre a quelle, ci sono state vite in cui ci siamo sacrificati l’uno per l’altro. Siamo stati amanti, amici, famiglia…
- Ma non cancellano quelle in cui ci siamo divorati.
- È vero, ci siamo distrutti come il fiore e la spina, come la penna e la spada, come la madre e la figlia. Ma ci è stata data la possibilità di amarci in quanto tali. Dio ci ha benedetto, ci ha dato la possibilità di scegliere. 
- Non capisco voi umani, confondete troppo facilmente l’amore con la violenza.
- Una sola vita e ti sei già dimenticato cosa si prova? A essere un umano, intendo.
- Forse è quella la nostra vera maledizione.
- Cosa?
- Non ricordare. Siamo così veloci a dimenticare. Non sappiamo nemmeno cosa fossimo in principio. Magari eravamo come Adamo ed Eva. Abbiamo deluso Dio e lui ci ha puniti per quello.
-Adamo, eh? - l’Altro si toglie gli occhiali e li poggia sul tavolo. - Uomo saggio a mio avviso: ha dato retta a sua moglie, l’ha messa su un piedistallo più grande di quello della sua fede. D’altronde, cos’è Dio davanti a una donna?
Questa volta è lui a ridere. Quelle parole gli riportano alla mente i ricordi delle numerose vite in cui si erano amati come marito e moglie e tutte quelle in cui si erano amati come corpo e come anima. L’Altro sorride. Sente che tutto sta per giungere a una fine. Anche lui lo sente.
- Penso che ci sia stato un momento al principio in cui “noi” eravamo “io”. All’inizio eravamo uno, dice.
- Perché?
-Perché puoi chiedermi cosa mi piace e cosa no, che vita ho condotto e come sono morto, ma chiedimi chi sono e l’unica risposta che saprò mai darti è che sono te. Io esisto solo in relazione a te e tu esisti solo in relazione a me.
- ...
- Lo trovi triste? 
- No. Lo trovo crudele. Separati nel corpo, ma non nell’anima.
- Separati nella vita, ma non nella morte, ricordi?
- Appunto, crudele. 
L’Altro sospira. - Ma d’altronde, è davvero così importante sapere come siamo nati? Un individuo non è la sua nascita.
Lui lo guarda con i suoi grandi occhi felini. - La nostra non è una nascita, ma una creazione. E una creazione è uno scopo. In questa vita non gli è concesso vedere i colori con gli stessi occhi degli umani, ma vede comunque il cielo diventare rossastro con l’arrivo della sera.
L’Altro lo accarezza gentilmente e lo guarda: - Non vuoi davvero uno scopo, solo un motivo. Uno scopo è ciò che ti permette di guardare al futuro, eppure tu cerchi sempre di ancorarti al passato. 
- Ed è un male? Ricordare è importante.
- Ma non è tutto. Siamo stati felici anche nelle vite in cui non ci ricordavamo l’uno dell'altro, siamo riusciti a trovarci. Ho smesso di affliggermi per tutto quello che ero e tutto quello che non sono. 
Lo guarda ancora una volta: - Dovresti fare lo stesso. 
Cerca di tirarsi un po’ più su. Non ci riesce. Il gatto nota un leggero tremore nelle sue mani. L’Altro sa che se n’è accorto, lo percepisce. -Sai, l’ho fatto migliaia di volte, eppure ho ancora paura della morte. Questo è uno dei motivi per cui non credo che siamo stati creati solo per morire. Se davvero, come dici tu, una creazione è uno scopo, come posso essere così spaventato della mia ragione d’essere?
Potrebbe ribattere. Potrebbe continuare il discorso in eterno perché in tutte le loro vite mai una volta si erano trovati d'accordo su qualcosa. Ma non lo fa. Non ne vale pena. Troppo poco tempo.
-Scusa, dice.
L’Altro non risponde.
- Avrei dovuto dirti parole di conforto, avrei dovuto darti certezze e invece ti ho dato solo dubbi.
- So che non intendevi essere crudele, dice, - ma ciò non significa che tu sia stato accorto.
- Perdonami, lo sai che non sono mai stato bravo con le parole. Ma so che tu sei molto bravo a leggere le anime e sai che in fondo sono felice di avere qualcosa che renda così difficili gli arrivederci.
Sorride. - Sei perdonato. Mi rimane troppo poco tempo per potermi aggrappare a futili rancori.
Chiude gli occhi e appoggia la testa alla sedia. - Forse il nostro tempo come singolo era limitato e ce n’è stato donato dell’altro. Non lo so. Qualunque sia la ragione di tutto ciò, sono grato a chi mi ha messo proprio qui, proprio adesso. Con te. Mi basta.
- Sei stanco?
- Sì, ma non andartene. Resta qui con me fino all’ultimo. Ho paura.
- Va bene.
E così fa. Aspetta fino a che il respiro non diventa un soffio e poi nulla. 
Ecco, ora l’Altro è nulla, e dato che esistono solo l’uno in relazione all’altro, lo è anche lui. Allora si sdraia nel suo nulla. Anche lui è stanco. 
- Questa vita non è stata così male, alla fine, pensa. Ma quelle in cui non ha memoria delle precedenti sono sempre le sue preferite. Odia le vite in cui si ricorda di tutte quelle che sono venute prima. Le odia perché perdere l’Altro allora significa perdere tutto ciò che è stato: madre, padre, figlio, amico, nemico, amante, vittima, carnefice, maestro e allievo. Gli fanno male anche quelle da perfetto sconosciuto.
O, semplicemente, perdere l’Altro significa essere spogliato, nudo e vulnerabile. Così tanto che tutto è in grado di ferirlo.
E, diamine, quanto odia Dio. Lo odia perché li ha costretti a vivere come entità separate, distanti. Ma in quel momento gli è anche grato come mai prima per aver reso i gatti incapaci di piangere. Rischierebbe di annegare nelle sue lacrime.
Ed è guardando quella stanza piena di foto della sua defunta moglie, dei suoi figli e nipoti che capisce: la loro maledizione non è dimenticare. È ricordare.

NOTA
Nel «Simposio» il filosofo greco Platone racconta che un tempo gli esseri umani avevano quattro braccia, quattro gambe e due facce, orientate in direzioni opposte; un giorno osarono sfidare gli dèi, i quali decisero di punirli per sempre, dividendoli in due e dando origine agli uomini con l’aspetto che conosciamo oggi, condannati alla perenne ricerca della propria metà per ricostituire l’unità perduta. Forse proprio da questo mito ha tratto ispirazione l’autrice di questo racconto, che di Platone riprende anche la forma dialogica, perché è solo attraverso il dialogo e il confronto che è veramente possibile giungere alla conoscenza.
I protagonisti sono bloccati in un ciclo di morte e rinascita infinita, incontrandosi e scontrandosi, vita dopo vita, a volte amandosi, altre odiandosi e distruggendosi a vicenda, a volte senza ricordare, altre invece ricordando anche troppo delle precedenti esistenze. Quando anche l’attuale vita sta ormai giungendo al termine, uno dei due, incarnatosi in un gatto, cerca di comprendere il senso di questo ciclo, in cui la morte unisce le anime dei personaggi quasi nello stesso istante, mentre i loro corpi possono trascorrere anche l’intera esistenza senza mai avvicinarsi. Forse, ma i due non lo ricordano, in principio erano una cosa sola, proprio come gli esseri umani nel mito di Platone, separati a causa di una colpa primordiale; dunque, la divisione in due, vale a dire la distruzione dell’unità originaria, intesa come punizione, che nel racconto è definita dal gatto come “maledizione” inflitta da Dio. Ma in che cosa consiste esattamente? È dal confronto delle opinioni dei due protagonisti, dalle parole che si scambiano, dalle emozioni accennate e dai ricordi sbiaditi, che si arriva alla risposta finale, in un percorso di costruzione della conoscenza attraverso il dialogo in pieno stile platonico. Dunque, la maledizione non consiste nella morte, perché se essa fosse davvero lo scopo dei personaggi non li spaventerebbe così tanto, né può essere rintracciata nell’assenza di ricordi circa la propria identità e la propria origine, perché ciò che importa non è il passato ma lo scopo che ci si prefigge per il futuro. Si può solamente concludere che la vera maledizione è ricordare, continuare a struggersi per un legame che durerà per l’eternità e tentare costantemente di ritornare a essere completi sapendo di essere destinati a fallire. “Memorie di un gatto” è un racconto sull’amore, sui legami inscindibili tra gli individui, sul tormento interiore che ci può spingere alla follia di distruggere proprio ciò che amiamo di più; forse, però, ciò che l’autrice soprattutto intende dirci è che non dobbiamo vivere di rimpianti, ma guardare al futuro nonostante il dolore e la violenza, con la speranza di creare relazioni basate su affetto e autenticità, ripristinando l’originaria unità perduta anche se solo per la breve durata di una vita.

Barbara Battistella

Per visualizzare la versione del racconto in PDF clicca QUI


LE PUNTATE PRECEDENTI:
-Racconti dalla Villa/0: L'Introduzione
-Racconti dalla Villa/1: Il Diluvio
-Racconti dalla Villa/2: Arlene di Piombo
-Racconti dalla Villa/3: Una mattina come tante
-Racconti dalla Villa/4: L'ombra sulla collina
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