RACCONTI DALLA VILLA/9: un abbagliante amore, per cui 'basta un raggio di sole'
Prosegue la rubrica Racconti dalla villa, inaugurata nelle scorse settimane (recuperate l’introduzione QUI e i primi otto racconti QUI), con un nuovo testo di Gaia Lena, accompagnato dalla nota di Giulia Redaelli, curatrice della rubrica ed ex-alunna dell’istituto Greppi, dove studiano o hanno studiato gli autori delle storie.
Come ogni martedì: lasciatevi trasportare dalla narrazione
I curatori: Giulia Redaelli e Beniamino Valeriano
Era lì che ogni anno il loro sole sorgeva.
Quei raggi che erano stati caldi e freddi, luminosi e bui, quei raggi che filtrati dalla luce formavano sul terreno curiosi giochi di ombre, in grado di incantare anche il più annoiato dei passanti e di intrattenere, nel corso degli anni, una coppia innamorata.
Su quella panchina, che di vita ne aveva vista, urla, litigi e pianti, risate, sguardi e amore. Su quel legno adesso consumato, con qualche disegno qua e là, qualche graffio e piccoli pezzettini mancanti; quello era il loro posto nel mondo. Lui aveva conosciuto lei e sé stesso, perché ancora non sapeva chi era, lei aveva conosciuto lui e sé stessa, perché sapeva chi era, ma non si era mai vista così. Questa era stata la loro storia perché lui tra tutti l’aveva guardata con quegli occhi, lui tra tutti la sapeva disegnare con un solo sguardo, lui tra tutti l’avrebbe osservata per ore dipingere su quelle tele che sembravano non finire mai. Lui le aveva detto che l’amava, lui si era accorto di come tremassero le sue mani mentre non dipingeva, di come strizzava il naso se non le piaceva quello che stava disegnando, di come la sua impugnatura era leggera mentre cercava di non sbavare su quella tela bianca, di come brillavano i suoi occhi quando nel cielo spuntavano le sfumature dei tramonti, di come il soggetto della sua opera cambiava a seconda del suo umore, di come i suoi occhi raccontavano storie, di come il suo respiro si faceva irregolare quando annegava tra i suoi amati colori, di come abbinava le sue calze stravaganti alla tavolozza, di come splendeva quando arrivava la nuova stagione, di come chiudeva gli occhi quando mangiava qualcosa che le piaceva, di come sorrideva a ogni bambino che vedeva per strada, di come alzava gli occhi al cielo se notava che lui la stava guardando; come amava la sua vita, nonostante quei mostri che a volte le spegnevano gli occhi, perché quelle pupille color nocciola sapevano parlare. Si erano conosciuti lì, tra le risate dei bambini spensierati, che la vita non aveva ancora spezzato, tra i fiori di quel ciliegio che fiorivano ogni primavera ed erano bellezza tra i ghirigori dei palazzi grigi, tra le urla dei padroni di tutti quei cani che correvano tra i prati verdi, tra quei lavoratori che cercavano pace nella pausa pranzo, tra il vociferare della gente e il silenzio della natura. Lei lo aveva visto lì, per la prima volta, un lontano pomeriggio autunnale, uno di quelli in cui le foglie cominciano a cadere, scivolando via, e il loro fruscio sotto i piedi dei passanti crea un’atmosfera quasi magica. Lo aveva visto fumare una sigaretta dall’altro lato della stradina di ghiaia che li separava, con gli occhi stropicciati e i pensieri spettinati, lo aveva visto camminare con la testa pesante tra tutti quei sentieri dove no, non si erano incontrati, lo aveva visto rannicchiato come una piccola lumaca nel suo guscio; ma lei no, lui non l’aveva notata. Lui l’aveva vista sull’altro lato della stradina, mentre con le sue mani piccole scorreva il pennello sulla tela, dopo aver girato quel tabacco che doveva smettere di fumare, tossiva da qualche giorno, l’aveva sentita, come il suo profumo di vaniglia, i suoi dolci preferiti, aveva visto la luce che le illuminava il volo mentre si rifletteva nei suoi orecchini; ma lui no, lei non l’aveva notato. Eppure quel giorno i loro sguardi si erano incrociati proprio al centro di quella stradina che da tanto aspettava di essere attraversata e in quel momento ne erano certi, si erano notati, anzi si erano scelti tra tutte quelle anime vaganti intorno a loro. I loro occhi si erano fusi in un magico caleidoscopio e la vita, in quella frazione di secondo, aveva acquistato più colore. Lui allora, trasportato da questa scossa improvvisa si era alzato, “ciao, ti stavo aspettando” aveva detto, nonostante sapesse che sarebbe potuto sembrare inquietante, ma lei sorrise, come quei sorrisi che rivolgeva spontaneamente agli anziani che vedeva passeggiare per strada, ma stavolta quel sorriso, una parentesi al contrario poi se ci pensi bene, era rivolto a lui. Nel profondo entrambi avevano capito che sarebbe stato l’inizio di quell’amore che i poeti bramano e di cui scrivono. E questo era stato il primo capitolo della loro storia d’amore, anche se all’inizio entrambi la vedevano in modo diverso. L’aveva letta proprio bene lui in tutti quei pomeriggi passati ad osservarla. Quella ragazza aveva tanti mostri e al difuori dei bordi delle sue tele aveva paura, un mare di tele nere, all’apparenza impossibili da disegnare o navigare. Lei non voleva far male a nessuno, davvero, ma era come se vivesse in una nuvola di fumo, simile a quella che si formava sul terrazzo la domenica quando i due stavano ore a parlare di ogni cosa. Insieme stavano dannatamente bene, esistevano solo loro, le loro parole e tutte quelle sigarette che, con il passare delle ore, si accumulavano nel posacenere. Lei viveva tenendo tutti a distanza per paura di fare ciò che le era stato fatto. Lei giurava di credere nell’amore e cercava di demolire quei muri, a poco a poco, perché risultava impossibile vivere in quella nuvola asfissiante, obbligandosi a evitare ogni cosa di importante perché aveva sofferto molto. Si guardava bene dall’innamorarsi di nuovo, ma questa che vita era? Il disamore non faceva per lei che si emozionava vedendo il tramonto sul mare o una mamma con il suo bambino. Lui invece era un tutt’uno di nuove emozioni e sensazioni, si lasciava trasportare perché conosceva bene i limiti della tela, ma voleva infrangerli, voleva entrare nel suo mondo senza chiedere, conoscerla mantenendo quel velo di mistero che li contraddistingueva, rapirla con quei discorsi che facevano perdere la cognizione del tempo. Ogni giorno continuava a leggerla, come il suo libro preferito, custodito come la cosa più fragile e allo stesso tempo più speciale nelle sue mani. Adesso sapeva del suo rapporto di complicità con il padre e dell’assenza della madre, aveva assaggiato quei dolci alla vaniglia che le vedeva mangiare quasi ogni giorno, l’aveva vista ballare con la testa pesante al centro di quella discoteca dov’era la stella più luminosa, sapeva della scatola sotto il suo letto con tutti quei quadri non terminati, l’aveva vista scrivere il resoconto della giornata su quel quaderno rosso rilegato in tessuto che conservava gelosamente, adesso sapeva chi era quella ragazza magica che lo aveva rapito e che ormai riconosceva negli occhi di ciascun passante, perché lei era ovunque. E ovunque ormai era il loro amore. Così era andata, nessuno avrebbe scommesso su di loro, eppure avevano passato una vita intera sempre in due, perché l’amore per loro era fatto così. Due anime gemelle complementari, due pezzi di puzzle che non si incastravano perfettamente, ma che avevano riempito quei vuoti con ogni forza possibile, perché era questo quello di cui avevano bisogno, trovarsi l’uno nell’altra. Quegli occhi, che quando si incrociavano si illuminavano come due fari, un amore a prima, a ultima e ad eterna vista, con quegli sguardi se lo erano promesso tanto tempo prima e non avevano mai cambiato idea. Lui l’aveva portata ogni san valentino all’orto botanico perché un mazzo di fiori non bastava, era rimasto sveglio per notti intere assicurandosi che lei si fosse addormentata, l’aveva cullata nel silenzio della notte quando gli incubi le tagliavano il respiro, l’aveva sposata perché era il suo unico desiderio e la sua felicità si misurava ormai con o senza di lei, le aveva portato la colazione a letto ogni domenica mattina, gli aveva preparato i biscotti alla vaniglia ogni volta che stava male, aggiustandoli a volte con un cucchiaino di miele quando l’impasto non veniva come desiderato, aveva visto i suoi occhi spegnersi lentamente il giorno in cui sua mamma volò via, aveva spento ogni partita di calcio pur di avere quegli abbracci, accompagnati dal profumo della tisana e dal calore che emanavano i loro corpi sotto le coperte. Ore e ore di passeggiate, piccoli gesti, baci innocenti, balli sotto le stelle e incatenanti giochi di sguardi su quella panchina rossa. Intanto gli anni passavano e le rughe cominciavano a solcare i loro volti, segni di felicità per una vita passata assieme, senza ripensamenti, con qualche ostacolo attraverso la lunga stradina di ghiaia, certo qualche inciampo e qualche vuoto tra quei sassolini, ma entrambi avevano fatto fiorire una vita per cui nessuno aveva piantato dei semi. Sicuramente stavano cambiando esternamente, ma dentro il loro amore era rimasto lo stesso, non era cambiato di una virgola, anno dopo anno, erano cresciuti insieme e continuavano a far sorgere il loro sole. Quel sole che non aveva mai smesso di creare magici giochi d’ombre, nelle quali si erano immaginati, immedesimati e sognati. Infondo loro erano un po’ come delle ombre, impronte del passato, nella luminosa scia d’amore, che li avrebbe uniti per ogni giorno della loro vita, fino all’ultimo respiro e oltre.
NOTA
Il racconto ricorda il dipinto Il bacio di Gustav Klimt: un connubio di due anime, che si incontrano e si conservano inscindibili nella loro individualità.
È una storia semplice, che narra del corso di una vita intera focalizzandosi su un unico dettaglio: la luce; il calore del parco, delle stagioni, «il raggio di Sole» dell’abbagliante amore che i protagonisti condividono e mettono in scena. Tutte immagini che evocano in chi legge una sensazione gialla, calda, familiare, dolce.
Forse un racconto di luoghi comuni, di sogni di giovinezza, di realtà ideali: l’amore, la cura, l’eternità… ma se ci fermiamo a riflettere, nel quotidiano, nella vita che ci portiamo dietro e che comprendiamo a fatica, non ci restano altro che queste speranze e, parafrasando il cantautore Brunori Sas, in un mondo in cui pare non esserci nulla che valga la pena di essere cantato (o scritto, o dipinto), non ci resta, forse, che scrivere testi che parlano d’amore.
Giulia Redaelli
Per visualizzare la versione del racconto in PDF clicca QUI
LE PUNTATE PRECEDENTI:
-Racconti dalla Villa/0: L'Introduzione
-Racconti dalla Villa/1: Il Diluvio
-Racconti dalla Villa/2: Arlene di Piombo
-Racconti dalla Villa/3: Una mattina come tante
-Racconti dalla Villa/4: L'ombra sulla collina
-Racconti dalla Villa/5: Memorie di un gatto
-Racconti dalla Villa/6: Linee incidenti
-Racconti dalla Villa/7: Una questione sinistra
-Racconti dalla Villa/8: Rifiorire