RACCONTI DALLA VILLA/10: le piccole grandi guerre che ciascuno è chiamato a combattere
Prosegue la rubrica Racconti dalla Villa, inaugurata nelle scorse settimane (recuperate l’introduzione QUI e i primi nove racconti QUI) con un nuovo testo di Viola Paganoni, accompagnato dalla nota di Francesca Corbetta, professoressa dell’istituto Greppi, dove studiano o hanno studiato gli autori delle storie.
Come ogni martedì: lasciatevi trasportare dalla narrazione.
Vissi una gioventù tranquilla, fino a quando la guerra non bussò alla mia porta. I conflitti popolavano l’umanità da sempre. Ero solita consumare i miei pasti con gli occhi incollati alle devastanti immagini trasmesse dai telegiornali della sera. La guerra era un mostro senza voce che potesse chiamarmi, non mi toccava. Rimasi in silenzio, mentre si accomodava in casa mia.
Io e la Guerra sedevamo l’una di fronte all’altra, evitando gli sguardi. Tra di noi si trovava una scacchiera. Io non giocavo. Lei muoveva le pedine, a volte una di seguito all’altra, altre volte aspettando che io giocassi il mio turno. Restavo immobile e allora lei, con cautela, muoveva anche i miei pezzi. La silenziosa partita era iniziata da un’eternità, quando la Guerra vinse il primo pezzo.
Quel giorno le sirene avevano suonato a mezzogiorno. Tutto il quartiere ricevette l’ordine di evacuare. Al riparo nel bunker, studiavo nella penombra i volti dei miei vicini. C’erano tanti bambini, gli occhi spalancati dal terrore, e i loro genitori, le cui labbra erano dischiuse in una nervosa preghiera. Il mondo sopra le nostre teste era bombardato.
Quando ritornò il silenzio, uscimmo in fila indiana dal riparo. L’uscita doveva averci portato in un’altra dimensione, perché, là fuori, ciò che ci attendeva non era il nostro mondo. Il fumo era ovunque, offuscava la vista e soffocava il respiro. Casa mia non esisteva più.
Il dolore che provai quel giorno non mi rese comunque desiderosa di reagire alle provocazioni della guerra. L’indifferenza che provavo per gli orrori era più forte. Cambiai città e mi adattai alla nuova vita.
La Guerra giocava, giocava e giocava. Si mangiò il mio lavoro, i miei soldi e mi lasciò senza risorse in un appartamento in affitto. La notte chiudevo gli occhi per scomparire. Il buio mi aiutava. Abbracciata da quel morbido mantello scuro sentivo di non poter perdere più nulla. E così avrei vinto io.
La sfortuna fu conoscere una persona. Era un pezzo diverso. Un alfiere scolpito nel marmo. Iniziammo a trascorrere del tempo nei posti l’una dell’altro, senza pianificare la mossa successiva. A metà tra un umile pedone ed un dispotico re, impugnava con fierezza il suo stendardo: la bandiera della libertà. Sua madre era stata una rivoluzionaria, e il figlio portava nel cuore i suoi insegnamenti. Litigavamo spesso. Odiava la mia indifferenza. A me la sua voglia di ribellione spaventava. Mi rispondeva che faceva paura anche a lui. Gli chiedevo perché. Alzava le spalle. «Consapevolezza, suppongo» sospirava «Ribellarsi è sempre un pericolo».
Io rimanevo in silenzio, e dentro di me detestavo questa sua anima. La odiavo perché voleva distruggere ciò che amavo.
Fu paradossalmente proprio quest’odio a farmi prendere in mano la prima pedina. Il mio alfiere si trovava in pericolo, e io sacrificai un pedone. Era una giornata scura, con le nuvole che nascondevano, gelose, il sole. Mi avvicinarono un paio di gendarmi. Mi chiesero dove stessi andando. «Da nessuna parte» decisi di rispondere. Sapevo che non era questo ciò che volevano domandarmi. Aspettai pazientemente che giungessero al punto. Questa volta la fatidica domanda riguardava l’esplosione del giorno precedente, organizzata, a detta loro, da una banda di anarchici. Volevano sapere chi fosse il responsabile. Ovviamente, volevano sentirsi dire il suo nome. Era lui il responsabile, lo sapevano. Ma allora perché non andare ad arrestarlo? Non potevano, non senza prove. Quindi avevano bisogno di me. Mentii, recuperando il primo nome che mi veniva alla mente. Strinsero le labbra, ma non dissero nulla. A loro non importava la verità, ma di avere qualcuno con cui prendersela. Qualcuno da portare davanti a un pubblico per giustiziarlo. Non c’era nulla di giusto.
L’esecuzione del ragazzo avvenne in piazza. Il corpo martoriato del pedone finì tra vittime della Guerra. La responsabile ero io. Era la prima volta che mi allontanavo dall’indifferenza, e avevo fatto uccidere una persona. Non me lo perdonai e le emozioni mi trascinarono sempre più lontano dalla mia naturale freddezza. Mi sono fatta coinvolgere, sospiravo all’orecchio dell’alfiere, e ora non so più come uscirne. È qui che inizia il gioco, sussurrava di rimando lui.
Di notte sognavo di essere schiacciata dalle spesse mura degli scontri, delle bravate e dei segreti. Immaginavo di essere un uccello, di poter spiccare il volo e andare lontano lontano, nuotare in quell’infinito cielo in cui c’ero soltanto io. Me la immaginavo così la libertà. Distante da tutto, perché ogni questione mi obbligava a compiere scelte.
Arrivò il giorno in cui l’alfiere dovette partire per una missione. Ci salutammo, augurandoci di rivederci presto. Io, ferma sulla porta, lo guardai incamminarsi alle prime luci dell’alba. E in quel momento lo odiai. Lo odiai perché mi stava lasciando qui, e con me lasciava un pezzo di sé. Mi aveva lasciato la voglia di agire. Di scegliere. Di provare qualcosa. Sentii il bisogno di rincorrerlo. Le mani aggrappate allo stipite della porta, la bocca serrata e gli occhi umidi.
Passarono i giorni, in silenzio. La Guerra divorava la scacchiera. Con lo sguardo vuoto, fissavo l’unico pezzo che mi interessava nel gioco. L’alfiere. Lui era al centro, in quel quadrato scuro dove nessuno poteva raggiungerlo, in mezzo alla tempesta, ma al sicuro. La Guerra era rapida, e la sua violenza correva. Una torre, due pedoni, entrambi i cavalli. Le proteste infuriavano nelle piazze, intere famiglie ridotte in miseria, bimbi per strada costretti ad elemosinare un pezzo di pane. Nessuno sceglieva questa vita, eppure erano in tanti a condurla. Le prigioni della vita erano piene. Dietro le sbarre, i suoi carcerati imploravano pietà.
Era aprile quando l’alfiere si mosse. I fiori e la tiepida aria primaverile cullavano ciò che restava della quotidianità sconvolta dagli orrori. Era nascosto da qualche parte, aspettando il momento giusto. Mi scriveva così, e io non sapevo che occasione stesse aspettando. Mi parlava di liberazione, di fine della guerra. L’avrebbe battuta così, con un solo colpo, scacco matto. Un minuto pezzo di marmo contro un grande mostro. Davide e Golia. Non poteva sbagliare i calcoli. Voleva conoscere il momento, per poi buttarsi aggrappandosi al folle desiderio di libertà che lo animava da sempre.
L’alfiere si mosse sulla scacchiera di due quadrati. Destinato a viaggiare lungo un solo colore, sognava di poter invadere anche le case chiare. Si accorse dopo dell’errore. Avrebbe dovuto muoversi di tre, non di due. Ora il mio re era scoperto. Il turno era della Guerra. Il suo cavallo era pronto. Disegnò il lato lungo della sua “L”. Ma qualcosa lo fermò. L’alfiere lo stava puntando. Percorreva in fretta caselle dai mille colori. Il momento non era più quello giusto. Aveva sprecato il suo turno. Ma non poteva stare fermo. Colse l’opportunità di provarci, come Icaro tentò il volo aspirando al sole. Il sole dell’alfiere era la libertà. La libertà per cui si sarebbe spinto al più grande atto di coraggio, che l’avrebbe reso schiavo della morte per sempre. Ma esiste la schiavitù per un sognatore? Uno spirito che rifiuta le catene le sfugge come la luce al buio.
L’alfiere abbatté il cavallo. La Guerra l’aveva nel mirino. Lui si voltò a guardarla. La sfidò con uno sguardo, mentre ombre scure solcavano quel viso sporco di ferite e fatica. Il mento alto, una postura rigida, mentre la regina avanzava col fucile puntato. «Non mi fai paura», gridò all’imponente giocatrice. Lei sorrise. Adorava gli uomini e la loro natura così orgogliosamente eroica. Un colpo. L’alfiere cadde nella polvere. Rotolò sulla scacchiera, un sorriso beato sulle labbra. Sorrideva perché l’aveva vista, l’aveva conosciuta e afferrata, anche se solo per un istante. Quella libertà! La libertà di aver scelto di sconfiggere l’ultima delle catene dell’uomo, la paura di morire. Aveva dimostrato a se stesso che il momento giusto non esisteva al di fuori di sé.
La Guerra l’avrebbe ucciso ugualmente. Ma era stato lui a decidere quando.
La Guerra aveva vinto. Ma la sua vittoria significava anche la fine della partita. Si alzò e fece per stringermi la mano, mi rifiutai e lei se ne andò. Il mondo, che annaspava nella devastazione, imparò improvvisamente a stare a galla. Le vittime furono ricordate. C’era anche il nome del mio alfiere. “Combattente per la libertà” lo definirono, anche se qualcuno pensò fosse stato soltanto un giovane suicida. Tornai a vivere nell’ombra della mia immobile libertà, ma ricordavo le sue parole. Eravamo tanto diversi, pur con lo stesso desiderio e, adesso, entrambi liberi. L’una da una parte, l’altro dall’altra.
NOTA
“Guerre”: il titolo è al plurale. Le guerre sono, infatti, almeno due: una è esterna – rapida, devastante, spietata – come quelle le cui immagini scorrono tristemente, ogni giorno, davanti ai nostri occhi; l’altra è interna – silenziosa, subdola, ma ugualmente distruttiva – tra l’individuo e la propria indifferenza. È la lotta in cui è trascinata la protagonista per il suo alfiere, combattente desideroso di libertà, che le fa un dono “scomodo”: la “voglia di agire, di scegliere, di provare qualcosa”, quell’uscire fuori dalla coltre della propria rassicurante apatia che può provocare un coinvolgimento potenzialmente pericoloso, ma anche determinante nell’affermazione di sé e dei propri ideali.
E sebbene possa sembrare che, alla fine, la Guerra abbia la meglio, emerge chiaramente anche come la vera vittoria sia quella contro l’indifferenza e la paura, la vera libertà quella di compiere scelte che rispecchino i propri valori.
Il ritmo incalzante, ma delicato al tempo stesso, le similitudini e le metafore raffinate – prima su tutte quella della partita a scacchi, fil rouge di tutto il racconto – coinvolgono il lettore in questa guerra contro la Guerra stessa e contro le piccole e grandi guerre che tutti, ogni giorno, sono chiamati a combattere.
LE PUNTATE PRECEDENTI:
-Racconti dalla Villa/0: L'Introduzione
-Racconti dalla Villa/1: Il Diluvio
-Racconti dalla Villa/2: Arlene di Piombo
-Racconti dalla Villa/3: Una mattina come tante
-Racconti dalla Villa/4: L'ombra sulla collina
-Racconti dalla Villa/5: Memorie di un gatto
-Racconti dalla Villa/6: Linee incidenti
-Racconti dalla Villa/7: Una questione sinistra
-Racconti dalla Villa/8: Rifiorire
-Racconti dalla Villa/9: Basta un raggio di sole
Come ogni martedì: lasciatevi trasportare dalla narrazione.
I curatori: Giulia Redaelli e Beniamino Valeriano
GUERRE-VIOLA PAGANONIVissi una gioventù tranquilla, fino a quando la guerra non bussò alla mia porta. I conflitti popolavano l’umanità da sempre. Ero solita consumare i miei pasti con gli occhi incollati alle devastanti immagini trasmesse dai telegiornali della sera. La guerra era un mostro senza voce che potesse chiamarmi, non mi toccava. Rimasi in silenzio, mentre si accomodava in casa mia.
Io e la Guerra sedevamo l’una di fronte all’altra, evitando gli sguardi. Tra di noi si trovava una scacchiera. Io non giocavo. Lei muoveva le pedine, a volte una di seguito all’altra, altre volte aspettando che io giocassi il mio turno. Restavo immobile e allora lei, con cautela, muoveva anche i miei pezzi. La silenziosa partita era iniziata da un’eternità, quando la Guerra vinse il primo pezzo.
Quel giorno le sirene avevano suonato a mezzogiorno. Tutto il quartiere ricevette l’ordine di evacuare. Al riparo nel bunker, studiavo nella penombra i volti dei miei vicini. C’erano tanti bambini, gli occhi spalancati dal terrore, e i loro genitori, le cui labbra erano dischiuse in una nervosa preghiera. Il mondo sopra le nostre teste era bombardato.
Quando ritornò il silenzio, uscimmo in fila indiana dal riparo. L’uscita doveva averci portato in un’altra dimensione, perché, là fuori, ciò che ci attendeva non era il nostro mondo. Il fumo era ovunque, offuscava la vista e soffocava il respiro. Casa mia non esisteva più.
Il dolore che provai quel giorno non mi rese comunque desiderosa di reagire alle provocazioni della guerra. L’indifferenza che provavo per gli orrori era più forte. Cambiai città e mi adattai alla nuova vita.
La Guerra giocava, giocava e giocava. Si mangiò il mio lavoro, i miei soldi e mi lasciò senza risorse in un appartamento in affitto. La notte chiudevo gli occhi per scomparire. Il buio mi aiutava. Abbracciata da quel morbido mantello scuro sentivo di non poter perdere più nulla. E così avrei vinto io.
La sfortuna fu conoscere una persona. Era un pezzo diverso. Un alfiere scolpito nel marmo. Iniziammo a trascorrere del tempo nei posti l’una dell’altro, senza pianificare la mossa successiva. A metà tra un umile pedone ed un dispotico re, impugnava con fierezza il suo stendardo: la bandiera della libertà. Sua madre era stata una rivoluzionaria, e il figlio portava nel cuore i suoi insegnamenti. Litigavamo spesso. Odiava la mia indifferenza. A me la sua voglia di ribellione spaventava. Mi rispondeva che faceva paura anche a lui. Gli chiedevo perché. Alzava le spalle. «Consapevolezza, suppongo» sospirava «Ribellarsi è sempre un pericolo».
Io rimanevo in silenzio, e dentro di me detestavo questa sua anima. La odiavo perché voleva distruggere ciò che amavo.
Fu paradossalmente proprio quest’odio a farmi prendere in mano la prima pedina. Il mio alfiere si trovava in pericolo, e io sacrificai un pedone. Era una giornata scura, con le nuvole che nascondevano, gelose, il sole. Mi avvicinarono un paio di gendarmi. Mi chiesero dove stessi andando. «Da nessuna parte» decisi di rispondere. Sapevo che non era questo ciò che volevano domandarmi. Aspettai pazientemente che giungessero al punto. Questa volta la fatidica domanda riguardava l’esplosione del giorno precedente, organizzata, a detta loro, da una banda di anarchici. Volevano sapere chi fosse il responsabile. Ovviamente, volevano sentirsi dire il suo nome. Era lui il responsabile, lo sapevano. Ma allora perché non andare ad arrestarlo? Non potevano, non senza prove. Quindi avevano bisogno di me. Mentii, recuperando il primo nome che mi veniva alla mente. Strinsero le labbra, ma non dissero nulla. A loro non importava la verità, ma di avere qualcuno con cui prendersela. Qualcuno da portare davanti a un pubblico per giustiziarlo. Non c’era nulla di giusto.
L’esecuzione del ragazzo avvenne in piazza. Il corpo martoriato del pedone finì tra vittime della Guerra. La responsabile ero io. Era la prima volta che mi allontanavo dall’indifferenza, e avevo fatto uccidere una persona. Non me lo perdonai e le emozioni mi trascinarono sempre più lontano dalla mia naturale freddezza. Mi sono fatta coinvolgere, sospiravo all’orecchio dell’alfiere, e ora non so più come uscirne. È qui che inizia il gioco, sussurrava di rimando lui.
Di notte sognavo di essere schiacciata dalle spesse mura degli scontri, delle bravate e dei segreti. Immaginavo di essere un uccello, di poter spiccare il volo e andare lontano lontano, nuotare in quell’infinito cielo in cui c’ero soltanto io. Me la immaginavo così la libertà. Distante da tutto, perché ogni questione mi obbligava a compiere scelte.
L’alfiere non mi capiva. «Come fai ad essere libera, se non vuoi nulla su cui esercitare le tue decisioni?», chiedeva confuso. «I veri schiavi sono coloro che non scelgono», aggiungeva con disgusto.
Ma forse la libertà non era una condizione esterna. Forse dipendeva dal cuore di ognuno. Forse anche la Guerra amava la libertà, perché senza la sua ingiusta violenza nessuno si sarebbe battuto per essa.Arrivò il giorno in cui l’alfiere dovette partire per una missione. Ci salutammo, augurandoci di rivederci presto. Io, ferma sulla porta, lo guardai incamminarsi alle prime luci dell’alba. E in quel momento lo odiai. Lo odiai perché mi stava lasciando qui, e con me lasciava un pezzo di sé. Mi aveva lasciato la voglia di agire. Di scegliere. Di provare qualcosa. Sentii il bisogno di rincorrerlo. Le mani aggrappate allo stipite della porta, la bocca serrata e gli occhi umidi.
Passarono i giorni, in silenzio. La Guerra divorava la scacchiera. Con lo sguardo vuoto, fissavo l’unico pezzo che mi interessava nel gioco. L’alfiere. Lui era al centro, in quel quadrato scuro dove nessuno poteva raggiungerlo, in mezzo alla tempesta, ma al sicuro. La Guerra era rapida, e la sua violenza correva. Una torre, due pedoni, entrambi i cavalli. Le proteste infuriavano nelle piazze, intere famiglie ridotte in miseria, bimbi per strada costretti ad elemosinare un pezzo di pane. Nessuno sceglieva questa vita, eppure erano in tanti a condurla. Le prigioni della vita erano piene. Dietro le sbarre, i suoi carcerati imploravano pietà.
Era aprile quando l’alfiere si mosse. I fiori e la tiepida aria primaverile cullavano ciò che restava della quotidianità sconvolta dagli orrori. Era nascosto da qualche parte, aspettando il momento giusto. Mi scriveva così, e io non sapevo che occasione stesse aspettando. Mi parlava di liberazione, di fine della guerra. L’avrebbe battuta così, con un solo colpo, scacco matto. Un minuto pezzo di marmo contro un grande mostro. Davide e Golia. Non poteva sbagliare i calcoli. Voleva conoscere il momento, per poi buttarsi aggrappandosi al folle desiderio di libertà che lo animava da sempre.
L’alfiere si mosse sulla scacchiera di due quadrati. Destinato a viaggiare lungo un solo colore, sognava di poter invadere anche le case chiare. Si accorse dopo dell’errore. Avrebbe dovuto muoversi di tre, non di due. Ora il mio re era scoperto. Il turno era della Guerra. Il suo cavallo era pronto. Disegnò il lato lungo della sua “L”. Ma qualcosa lo fermò. L’alfiere lo stava puntando. Percorreva in fretta caselle dai mille colori. Il momento non era più quello giusto. Aveva sprecato il suo turno. Ma non poteva stare fermo. Colse l’opportunità di provarci, come Icaro tentò il volo aspirando al sole. Il sole dell’alfiere era la libertà. La libertà per cui si sarebbe spinto al più grande atto di coraggio, che l’avrebbe reso schiavo della morte per sempre. Ma esiste la schiavitù per un sognatore? Uno spirito che rifiuta le catene le sfugge come la luce al buio.
L’alfiere abbatté il cavallo. La Guerra l’aveva nel mirino. Lui si voltò a guardarla. La sfidò con uno sguardo, mentre ombre scure solcavano quel viso sporco di ferite e fatica. Il mento alto, una postura rigida, mentre la regina avanzava col fucile puntato. «Non mi fai paura», gridò all’imponente giocatrice. Lei sorrise. Adorava gli uomini e la loro natura così orgogliosamente eroica. Un colpo. L’alfiere cadde nella polvere. Rotolò sulla scacchiera, un sorriso beato sulle labbra. Sorrideva perché l’aveva vista, l’aveva conosciuta e afferrata, anche se solo per un istante. Quella libertà! La libertà di aver scelto di sconfiggere l’ultima delle catene dell’uomo, la paura di morire. Aveva dimostrato a se stesso che il momento giusto non esisteva al di fuori di sé.
La Guerra l’avrebbe ucciso ugualmente. Ma era stato lui a decidere quando.
La Guerra aveva vinto. Ma la sua vittoria significava anche la fine della partita. Si alzò e fece per stringermi la mano, mi rifiutai e lei se ne andò. Il mondo, che annaspava nella devastazione, imparò improvvisamente a stare a galla. Le vittime furono ricordate. C’era anche il nome del mio alfiere. “Combattente per la libertà” lo definirono, anche se qualcuno pensò fosse stato soltanto un giovane suicida. Tornai a vivere nell’ombra della mia immobile libertà, ma ricordavo le sue parole. Eravamo tanto diversi, pur con lo stesso desiderio e, adesso, entrambi liberi. L’una da una parte, l’altro dall’altra.
NOTA
“Guerre”: il titolo è al plurale. Le guerre sono, infatti, almeno due: una è esterna – rapida, devastante, spietata – come quelle le cui immagini scorrono tristemente, ogni giorno, davanti ai nostri occhi; l’altra è interna – silenziosa, subdola, ma ugualmente distruttiva – tra l’individuo e la propria indifferenza. È la lotta in cui è trascinata la protagonista per il suo alfiere, combattente desideroso di libertà, che le fa un dono “scomodo”: la “voglia di agire, di scegliere, di provare qualcosa”, quell’uscire fuori dalla coltre della propria rassicurante apatia che può provocare un coinvolgimento potenzialmente pericoloso, ma anche determinante nell’affermazione di sé e dei propri ideali.
E sebbene possa sembrare che, alla fine, la Guerra abbia la meglio, emerge chiaramente anche come la vera vittoria sia quella contro l’indifferenza e la paura, la vera libertà quella di compiere scelte che rispecchino i propri valori.
Il ritmo incalzante, ma delicato al tempo stesso, le similitudini e le metafore raffinate – prima su tutte quella della partita a scacchi, fil rouge di tutto il racconto – coinvolgono il lettore in questa guerra contro la Guerra stessa e contro le piccole e grandi guerre che tutti, ogni giorno, sono chiamati a combattere.
Francesca Corbetta
Per visualizzare la versione del racconto in PDF clicca QUI
LE PUNTATE PRECEDENTI:
-Racconti dalla Villa/0: L'Introduzione
-Racconti dalla Villa/1: Il Diluvio
-Racconti dalla Villa/2: Arlene di Piombo
-Racconti dalla Villa/3: Una mattina come tante
-Racconti dalla Villa/4: L'ombra sulla collina
-Racconti dalla Villa/5: Memorie di un gatto
-Racconti dalla Villa/6: Linee incidenti
-Racconti dalla Villa/7: Una questione sinistra
-Racconti dalla Villa/8: Rifiorire
-Racconti dalla Villa/9: Basta un raggio di sole